La strada
(racconto vincitore del premio “Fantascienza e dintorni – 2004)
Sono nato in questa strada, una via ampia che scorre dritta, un senso procede a sud verso il mare e s’incrocia con l’ampio lungomare sempre trafficato ad ogni ora del giorno.
Il senso opposto, quello che si dirige a nord, prima attraversa una statale, c’è un semaforo all’incrocio, poi si perde verso l’interno mantenendo sempre la stessa direzione.
Dicevo che sono nato in una casa sita su questa via a circa un chilometro più verso il mare da dove abito adesso.
Quando ero ragazzo, avevo tutti gli amici che stavano nella stessa mia strada e talvolta con loro facevamo delle scorribande risalendo con le bici verso il nord.
Inforcavamo i nostri velocipedi e con l’irruenza di quegli anni verdi pedalavamo veloci lasciando presto le nostre case a più piani per trovarci circondati da abitazioni coloniche con capanne, stalle, campi coltivati, covoni di paglia col palo piantato nel mezzo e un barattolo rovesciato all’estremità del palo.
Ci venivano incontro vociando torme di bambini scalzi che chiaramente erano i figli dei contadini.
La prima scuola, i primi amici, la chiesa che i miei frequentavano, i negozi nei quali si faceva la spesa, il cinema, tutto si snodava lungo la strada, anche il circo e il luna park che ogni anno montavano le loro tende e i loro stand, arrivavano da questa via e a lato di essa si fermavano per poi ripartire.
Andai poi alle scuole superiori, usando la metropolitana che portava in centro, finite le scuole trovai un lavoro, sempre in centro, e ho costantemente usato la metropolitana per questi spostamenti quotidiani.
L’auto l’usavo solo la domenica, per raggiungere il lungomare e talvolta proseguivo per chilometri e chilometri lungo la costa finchè non trovavo un tratto di mare adatto ad i miei tuffi.
Sono adesso in pensione e abito ancora in questa stessa via, l’ho già detto, un chilometro più a nord da dove sono nato, talvolta incontro alcuni dei miei vecchi amici dell’infanzia.
Guardo non verso il mare ove la strada finisce, ma verso nord ove la via prosegue e non so fin dove.
Ho esplorato un pezzo di essa da ragazzo, solo da ragazzo, poi non sono mai più tornato al nord. Sono passate diecine di anni da allora, sicuramente tutto sarà cambiato.
La direzione nord della strada mi attira sempre più, è una calamita che ruba tutti i miei pensieri, mi richiama ogni giorno più prepotentemente.
Ho finalmente deciso d’imboccare nuovamente quella via, voglio vedere ove sbocca, sono sempre più curioso, anche perché nelle carte che ho consultato, la strada sembra interrompersi a soli dieci chilometri dalla mia abitazione, cosa che so non vera poiché con le esplorazioni in bici arrivammo ben oltre.
Ho riempito l’auto di viveri, acqua e taniche di benzina, ho caricato la mia vecchia bici sul portabagagli e ho girato la chiavetta d’accensione.
Parto lentamente in direzione nord: osservo come fosse la prima volta il luogo ove abito, quanti ricordi s’affastellano confusi nella mente, volti di donne e di bambini, interni di case e di negozi, fiori sbocciati, danze, cerimonie liete e tristi…..
Sfilano palazzi signorili a cinque sei piani, foderati in travertino, in preziosi tasselli di ceramiche colorate e marmi, per proteggerli dal salmastro nei giorni di vento, coi giardini ben curati, le siepi di pitosforo recentemente sforbiciate, le rose le buganvillee, gli oleandri in fiore, larghi marciapiedi con alberelli ornamentali, qualche severo pino maremmano nello sfondo, lampioni e panchine a distanze regolari, le auto lucenti parcheggiate in fila accosto ai marciapiedi.
All’improvviso c’è poi uno slargo di verde, un grande giardino pubblico, ove spesso andavo, con siepi e panchine, giochi per ragazzi e un laghetto coi cigni. Scorgo giovani che corrono e anziani seduti immersi nella lettura.
Proseguo e salgo il cavalcaferrovia: sotto passano rotaie sulle quali i treni sfrecciano veloci. Dal cavalcaferrovia vedo il grande centro commerciale e i negozi che lo circondano.
Mi fermo proprio in cima al cavalcaferrovia e scendo dall’auto, la strada è grande e non intralcio nessun altro mezzo, guardo verso il mare e scorgo il mio condominio e più lontano la casetta ove sono nato che adesso è stata ristrutturata e trasformata in villetta. Poi leggermente a sinistra c’è l’entrata della metro, più lontano la riga brillante del mare.
Riparto nella mia direzione e mi fermo al semaforo che trovo all’incrocio con la statale. Il semaforo è rosso e io aspetto pazientemente senza spegnere il motore: la statale è molto trafficata e file di auto multicolori sfrecciano veloci nelle due direzioni. Attendo: infine il semaforo passa al verde, parto veloce perché so che nella mia direzione il verde dura solo un attimo e non di più. Vedo infatti la massa delle auto che di malavoglia s’è arrestata, negli abitacoli i conducenti nervosi sgasano con rabbia e ripartono facendo stridere le gomme quando io non ho ancora finito d’attraversare la strada.
Proseguo e per qualche chilometro tutto sembra essere uguale a dove io abito. Più avanti però le case non sono foderate di pietra e hanno l’intonaco scrostato, si fanno sempre più brutte, più maltenute, sembrano anche più antiche, ma questo non è possibile, perché quando passavo qui da ragazzo queste abitazioni non c’erano ancora.
I giardini non sono più curati come nel mio quartiere e alcuni sono addirittura abbandonati: qualche abitazione ha nientemeno che due assi incrociati sopra le porte e le finestre.
Sono adesso in un agglomerato ove le case si stringono fitte ai lati della strada. Parcheggio e scendo per fare un giro. Gli appartamenti sono ora a due, tre piani, i giardini qui non ci sono, ma corti sterrate utilizzate come parcheggio dalle auto.
Alcune macchine sembrano abbandonate da tempo, sono coperte di cocci e di ruggine.
La strada è attraversata da innumerevoli fili metallici, del telefono, della luce e chissà d’altro.
I negozi hanno tutti le saracinesche abbassate e alcuni carrelli da supermercato, arrugginiti, giacciono rovesciati accanto alle porte d’ingresso.
Passanti furtivi mi guardano di sottecchi e girano veloci gli angoli, un uomo strattona una giovane ragazza e la conduce a forza in un portone, nessuno sembra notare niente d’insolito e la ragazza vistosamente si ribella, ma non emette un solo suono.
Turbato risalgo in auto e riparto, voglio andare avanti, ancora più avanti.
Mangio un panino imbottito e bevo birra mentre l’auto prosegue, e i venti chilometri previsti da quella stupida cartina sono già stati abbondantemente superati da altri venti e la strada prosegue ancora chissà per quanto.
È giunta la notte, parcheggio l’auto e mangio della frutta, lì vicino c’è un’insegna tremolante BAR, mi farò un caffè poi dormirò nell’auto e domattina andrò ancora più avanti.
A piedi faccio i cento metri che mi separano dal bar, entro da una cigolante porta a vetri, l’interno è poco illuminato e alcuni avventori, vestiti come operai del secolo scorso se ne stanno giocando a carte con mezzette di vino rosso e calici squadrati davanti.
Per terra all’ingresso c’è una sputacchiera, le avevo viste solo nei vecchi film, cerco di non guardarla ed entro in quest’ambiente estremamente fumoso.
Sì, il fumo qui è a strati, c’è odore di sigaro e di pipa, c’è anche odore d’orina, e mi ricorda che devo andare al bagno.
Mi avvicino al bancone di legno, è lurido, e chiedo al barista che indossa una giacca che sicuramente molto, molto tempo prima era bianca, un caffè.
– Corretto?
– No, semplice.
Prendo il caffè, lo zucchero e mi siedo ad un tavolo vuoto. C’è una porticina e una targhetta “LATRINA”, mi alzo, ci vado. È un bugigattolo puzzolente con un foro circolare per terra su un lastra di marmo lurida e un “tappo” anch’esso di marmo con una maniglia metallica: mi arrangio mentre l’odore di ammoniaca si leva da quel foro nel pavimento, poi ritappo il buco ed esco.
Al mio tavolo c’è un ragazza seduta, mi siedo accanto al mio caffè e la guardo: è sudicia e ha alcuni denti cariati, è giovane, ma sento che pure puzza di sporco.
La ignoro, bevo il caffè, poi mi accendo una sigaretta, lei prende una delle mie sigarette e l’accende.
Seguito ad ignorarla e mi guardo attorno: sembra un’osteria del 1900, anche la macchina del caffè è enorme e in ottone di quelle con gli stantuffi, pure gli avventori sembrano piovuti da quel secolo.
Nessuno presta la pur minima attenzione al sottoscritto, neppure la lurida ragazza che è seduta al mio tavolo e che sta con piacere assaporando la sigaretta che mi ha preso. Vedo un quotidiano piagato su una sedia poco distante, lo prendo per sfogliarlo.
È scritto in alfabeto cirillico, meravigliato lo riposo, c’è un mazzo di carte, mi faccio un solitario, poi un altro e questo lo risolvo.
La ragazza seduta ha finito la sigaretta e la spenge dentro la tazza vuota del mio caffè, estrae un seno dalla scollatura e mi fa – Andiamo? – No, grazie – Le rispondo, mi alzo, vado al bancone chiedo quanto è, ma il barista mi fissa senza rispondere, gli lascio allora sul banco un euro e lui guarda la moneta con interesse, ma non dice niente.
Esco e torno all’auto, inclino i sedili, mi metto un plaid addosso e mi addormento.
Durante la notte qualcuno sbatte con violenza contro la carrozzeria della mia macchina emettendo un grido, un ubriaco? Ma non riesce a svegliarmi del tutto.
Al mattino riparto e più mi addentro verso il nord, più tutto sembra diverso, il traffico ora è quasi inesistente, ho incontrato solo un paio di carri trainati da cavalli, e anche i pedoni sono rari.
Bar più non se ne vedono, distributori di carburante neppure a parlarne. Ma ho portato ben due taniche piene di benzina, così mi fermo e realizzo il pieno con esse. Proseguo senza mai fermarmi per molte ore, poi faccio una sosta in un’area ove le case sono tutte diroccate, sembra proprio che siano cadute per incuria.
Lascio sul selciato i miei bisogni, mi sgranchisco le gambe, mangio e bevo qualcosa. C’è una casa che è proprio rasa al suolo e, tra le macerie si scorgono i resti di una vecchia auto degli anni ’50. Mi avvicino e tra i detriti distinguo delle bianche ossa che mi sembrano umane, non ho voglia d’indagare su questi aspetti e proseguo.
I marciapiedi qui hanno molte pietre divelte e sull’asfalto crepato della strada col gesso vedo disegnati dei giochi di ragazzi: qualcuno allora è stato qui recentemente.
Mi sento osservato e mi giro verso un muro sbrecciato. Chiunque fosse la dietro, s’accorge che l’ho visto e fugge veloce. Lo chiamo, ma quell’indistinta figura è già sparita.
Torno all’auto e proseguo il mio viaggio, guido fino a notte inoltrata, mi fermo seguendo un cartello che indica PARCHEGGIO: nell’area della sosta ci sono solo gli scheletri di altre due auto, guardo le targhe, ma sono illeggibili, la ruggine le ha cancellate.
Le luci sono tutte spente, cespugli sono nati tutt’intorno all’area di parcheggio e in alcuni punti sono riusciti a conquistarsi anche fette d’asfalto. Sembra non esserci anima viva e rottami e fili metallici sono ovunque.
La notte però odo grida, colpi d’arma da fuoco, rumori d’ogni tipo: in piena oscurità un animale si avvicina all’auto, lo vedo cercar di guardare all’interno, appannare il cristallo con una bocca canina, gli occhi brillanti, i lunghi bianchi denti e la lingua gocciolante. Mi faccio piccolo piccolo sotto il plaid: l’animale annusa a lungo tutta l’auto, poi addenta più volte i pneumatici, e infine se ne va.
Al mattino ho una gomma forata, la cambio e riparto e lungo la strada vedo solo edifici che sembrano aver subito un bombardamento, parte della carreggiata è talvolta occupata da masse indefinibili di metallo arrugginito. Macerie, macerie, solo macerie per chilometri e chilometri, interrotte talvolta da alcuni campi incolti.
Quando si fa notte qualcosa cambia, ci sono degli edifici abitati e incontro dei campi coltivati, ma la strada s’è fatta più stretta ed è sterrata, non più asfaltata.
Proseguo fin quasi al mattino e ad un certo punto l’auto si ferma, la benzina è finita.
Carico allora il cibo, l’acqua e le poche cose indispensabili su uno zaino e prendo la bici.
Adesso davanti a me c’è un lungo ponte in legno che attraversa un fossato, ma forse è un fiume, mi accorgo che è molto ampio e le sue acque devono essere profonde.
Il ponte ha delle spallette, anch’esse in legno, ci appoggio la bici e scendo verso le acque che scorrono.
– Fossi in lei non lo farei!
Mi fermo, mi guardo intorno e scorgo un uomo sul ponte vestito in jeans e camicione a quadri.
– Scusi, diceva a me?
– Io non andrei troppo vicino all’acqua.
– Perché?
– Ci sono le scille!
– Che cosa?
– Le scille!
– Non so cosa siano.
– Guardi allora.
L’uomo si china e da una cesta di vimini trae un pesce e lo lancia in acqua. Il pesce non fa in tempo a cadere nel fiume che un lungo tentacolo s’alza di scatto e lo inghiotte.
Il tentacolo poi si mette eretto, dritto verso l’alto e si aprono come dei petali colorati sulla sua sommità, a raggiera, sì che l’effetto finale è quello d’una enorme margherita colorata.
– È una pianta carnivora?
– No, è un animale, una scilla d’acqua dolce, e il fiume ne è pieno: per questo non è saggio avvicinarsi troppo.
– Mangiano anche le persone?
– Sì, le trascinano in acqua e le strappano a morsi.
– Non lo sapevo, grazie per avermi avvertito.
Risalgo veloce verso il ponte, voglio calorosamente ringraziare il pescatore per avermi salvato la vita, ma di lui non v’è traccia, monto allora nuovamente sulla bici e mi fermo proprio nel mezzo del ponte.
Immobile guardo l’acqua scorrere, per un po’ non succede proprio nulla, poi lentamente, una ad una le scille emergono, innalzano il loro collo a forma di stelo e i mortali petali s’aprono a corona.
Il fiume ora è pieno di grandissimi fiori colorati, solo in apparenza innocui: ma ogni tanto un fiore silenziosamente e repentino su tuffa per carpire un pesce, più raramente qualche altro fa un guizzo per prendere al volo con quella bocca rotonda che è circondata dai petali, qualche ignaro uccello.
Osservo a lungo, non ho mai visto animali del genere, poi ricomincio a pedalare e mi sposto nuovamente più a nord.
Pedalo lungo la dritta strada sterrata e giungo ad un centro abitato.
Alcuni ragazzi vestiti di stracci mi osservano arrivare e sento i loro occhi penetranti che seguono ogni mio avanzamento. Ci sono bambini dappertutto e mi osservano con degli strani occhiali bianchi, non mi vengono incontro, sono quasi immobili.
Pedalo finchè non vedo quella che mi sembra un’osteria, scendo dalla bici ed entro: macchine del caffè non ne vedo, ma boccali da birra rovesciati sono accatastati lungo il bancone.
Dietro c’è una ragazza rossa di capelli e dall’aspetto florido, meno male che non è lurida e non porta quelli strani occhiali bianchi.
– Una birra.
Lei mi serve un boccale abbastanza grande d’una birra bionda spumeggiante, il sapore è un po’ aspro, ma gradevole.
Mi siedo su uno sgabello di legno nero e bevo con calma. Mi accendo una sigaretta e scorgo uno sguardo di disappunto negli occhi dell’ostessa.
Più tardi pago e lei guarda con attenzione le monete che le ho lasciato sul banco, poi scuote la testa e le ripone in un cassetto sotto il bancone.
Con lo zaino in spalla esco, ma la bici più non c’è. Faccio segno ad un ragazzo con gli occhiali bianchi, ma quello sparisce, e sono spariti tutti, nella strada non c’è più nessuno.
Mi sistemo ammodo lo zaino sulle spalle e riparto a piedi nella direzione nord, la strada non è più sterrata, ma neppure asfaltata, sembra sia stata spennellata con più strati di silicone. Più vado avanti più le case sono strane, quasi orientaleggianti, ma con gli angoli smussati, quasi a pianta circolare, non saprei come definirle, hanno un qualcosa d’inquietante e d’alieno, sono riapparsi anche i marciapiedi, ma hanno un che di sbagliato.
Incontro anche alcuni passanti, ma i loro sguardi sotto quegli assurdi occhiali bianchi, sono ambigui e i loro vestiti troppo stretti e corti: sembra che si siano tutti abbigliati con i loro abiti da ragazzo.
Alcuni scivolano sulla strada con strani pattini e vanno molto veloci.
Sono tutti in pantaloncini corti o minigonne quasi inesistenti e tutti si muovono in fretta, alcuni addirittura mi urtano.
Le abitazioni sono adesso disegnate con volute geometriche e alcune ricordano disegni psichedelici.
Vi sono molti negozi con vetrine illuminate. Mi fermo ad osservare le vetrine e scorgo esposti oggetti impossibili, le insegne poi sembrano dipinte con volute colorate.
Eppure sono sicuro che quello è un alfabeto, ma chissà da dove l’hanno preso. Proseguo e ora le abitazioni sono proprio tutte a pianta rotonda e gli abitanti che incontro hanno tutti, proprio tutti, quegli assurdi occhiali con le lenti bianche.
C’è un giardino pubblico con fiori e panchine: mi fermo.
Sto mangiando dei biscotti e sono seduto su una panchina che pensavo di pietra, invece è tiepida e soffice, quando un ragazzo si siede accanto a me. È quasi nudo con quei suoi vestiti striminziti, osservo meglio quei buffi occhiali, ma solo allora mi accorgo che sono i suoi occhi: ovali, bianchi, piatti, lisci.
Anche lui mi osserva, prima incuriosito, poi quando mi vede alzare di scatto, s’alza pure lui e mi rivolge alcune parole in un linguaggio gutturale che non capisco. Allora lui emette un fischio e dopo pochi secondi appare una bellissima ragazza vestita in nero, anzi molto poco vestita in nero. Il ragazzo se ne va e io rimango con questo schianto quasi nuda e vedo che quelli che credevo occhiali, sono occhi anche per lei.
Con gli stessi versi del ragazzo, che ora è sparito, lei vuol dirmi qualcosa, le faccio segno che non ho capito nulla e le sorrido.
Anche lei mi sorride e mi fa cenno di seguirla, così dopo una lunga passeggiata mi ritrovo all’interno d’una casa rotonda e lei mi offre del cibo, poi mi dà da fumare e infine mi serve un liquore dal sapore gradevolissimo e leggermente alcolico.
C’è calore qui, e c’è musica, è strano ma c’è sempre musica. Fuori ora è notte, ma all’interno c’è luce e non comprendo da dove provenga. Una parete si colora e appaiono immagini, è una specie di tivù e quello dev’essere l’equivalente del nostro telegiornale, solo che parlano in una lingua incomprensibile e hanno tutti quegli strani occhi piatti, brutti no, ma inquietanti.
Dopo il tìgì c’è musica e un programma così strano come non ne ho mai visti.
Mi ritrovo a letto nudo con la padrona di casa e solo allora mi rendo perfettamente conto che a parte gli occhi e la lingua proprio impossibile, questa è giovane e molto, molto bella, fin troppo per me.
Malgrado sia un po’ sull’arrugginito nell’argomento riesco lo stesso a fare una buona figura, e io sono il primo ad esserne meravigliato.
Al mattino la colazione è servita, le mie cose che avevo nello zaino sono già state disposte nella stanza e quella strana tivù è già in funzione.
Il caffè è buono, anche se non credo proprio che sia caffè, e una tazza colma di cioccolato caldo mi aspetta: sono certo che non si tratta di cioccolato, ma di qualcosa di altrettanto gradevole.
Sul tavolo c’è un pacchetto di sigarette dall’aspetto alquanto strano: è tutto azzurro con arabeschi in oro.
Dopo il caffè e il cioccolato accendo una sigaretta tolta da quel pacchetto assurdo, l’assaporo, il gusto è lievemente speziato e devo dire che è veramente ottima.
Forse era questo il posto che ho cercato per tutta la vita: lei mi osserva con quegli strani occhi, mi prende la mano, la bacia e mi sorride.
Fuori alcuni ragazzi dagli occhi piatti stanno provando la mia bicicletta: cazzo! ecco dov’era finita! Però me l’hanno riportata.
Vedo che uno di loro già riesce a stare in equilibrio.
Gli sorrido.
È ormai già un bel po’ di tempo che mi trovo in questo luogo, lo so la strada prosegue ancora verso nord, ma mi è passata la voglia di andare avanti.
Tornare indietro, non se ne parla neppure, non rientrava nei miei programmi.
Comincio ad imparare la loro lingua e qui mi trovo così bene come non sono mai stato.
La mattina quando mi rado la barba, mi osservo attentamente allo specchio e sono ringiovanito di diecine d’anni: chissà perché?
La ragazza è sempre così affettuosa con me e non mi lascia mai, sono felice d’averla incontrata. Mi riempie sempre di piccoli regali, ho imparato anch’io a scivolare sulla strada con le loro scarpe anti-g che lei ovviamente mi ha regalato. Anche questo sapone da barba, il rasoio, il dopobarba e la crema da spalmare sugli occhi sono suoi regali.
La crema da occhi poi è fantastica, i miei occhi ovali bianchi assumono ora variazioni cromatiche madreperlacee.
Delle volte mi sembra proprio che questo posto sia veramente troppo per me e mi chiedo: “Dove sarà l’imbroglio?”
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