La Storia di Elsa Morante ‒ “Uno scandalo che dura da diecimila anni”
“È uno scherzo, uno scherzo, tutto uno scherzo!”
La Storia di Elsa Morante ‒ “Uno scandalo che dura da diecimila anni”
Una storia nella Storia che non si smette mai di rileggere, sempre attuale nella sua crudelissima, insensata ripetitività.
Gennaio 1941. Il giovane in divisa, alto e magro e con una faccia da ragazzino, lo sguardo perso e quasi disperato, si portava ancora dentro la dolcezza del Natale trascorso a casa sua, in Baviera, con la sua famiglia. Si trovava a Roma di passaggio, forse lo avrebbero mandato in Africa. AFRICA!… Più di mille soli e diecimila tamburi/ zanz tamtam baobab ibar! Un’avventura ghiotta, per un ragazzo cresciuto in un villaggio povero che aveva viaggiato solo in bicicletta o con l’autobus per arrivare al massimo a Monaco, e Gunther – questo il nome del soldato semplice richiamato alle armi con l’ultima leva di guerra – sognava al momento della partenza di scrivere un pagina di storia che avrebbe firmato, se necessario, col suo sangue e con quello copioso del nemico. Ma strada facendo già sentiva la nostalgia di casa e si raffreddavano i bollori al trapelare di certe notizie su ciò che nelle alte sfere si andava architettando. Ma che c’entrava lui con certe logiche da manicomio, con certi Affari di Possedimenti e Alleanze fra colossi trainati da macchine da guerra mostruose, alimentate dai cadaveri che si contavano a migliaia, tutti uguali una volta spogliati della divisa, una massa di carne da cannone che dopo la commemorazione diventava cibo per le mosche e fertilizzante per la terra. Pensieri tetri come il Continente Nero che lo aspettava, altro che mille soli e diecimila tamburi, altro che la Grande Avventura, una puttanata, solo una puttanata infame, Schwarzer Erdteil… Schwarzer Erdteil! E il giovane guerriero con l’uniforme attillata del Reich si aggirava spaesato nel quartiere di San Lorenzo cercando qualcosa che nemmeno lui sapeva, qualcosa che lo facesse sentire meno solo e disperato, e quando vide l’insegna Vino e cucina ritrovando una certa baldanza scese nella cantina Da Remo, ma l’accoglienza fu scostante e offensiva e il soldato invece di chiedere cibo ordinò che gli venisse portato del vino, e senza sedersi al tavolo si scolò senza quasi riprendere fiato cinque quartini, e più beveva e più saliva la rabbia che lo divorava. Avrebbe volentieri spaccato tutto, ma pagò e tornò fuori, e riprese a camminare per il quartiere a gambe molli e con un terribile senso di smarrimento. Gironzolò ancora a caso, poi vide un portone e là si fermò, desiderando rintanarsi in qualche buco per dormire e non pensare; ma quando gli comparve davanti quella donnetta timida e spaurita, infagottata nel cappottino scuro, carica di sporte, capì che era lei che voleva, che era di lei che aveva bisogno, del suo calore e della sua umanità e del suo abbraccio. E tutto ciò lo pretese. Così inizia la storia di Ida Ramundo vedova Mancuso, maestra elementare figlia di maestri elementari.
Ida da bambina soffriva di un male oscuro – diagnosticato in seguito come isteria precoce – che la coglieva all’improvviso, e quando tornava in sé non ricordava nulla. Anche questo era un segreto, come la madre ebrea e il padre alcolista.
Ida, classe 1904, è passata attraverso la Grande Guerra e il dopoguerra fatto di fame, epidemie e squadre nere, e l’occupazione di terre da parte di contadini e braccianti.
Non appena diplomata sposa Alfio Mancuso, messinese. I figli tardano ad arrivare e Ida inizia la sua carriera di maestra alla Garbatella, in una scuola che in seguito viene trasferita a Testaccio.
Durante la Marcia su Roma, nel 1922, una delle colonne nere entra per la porta di San Lorenzo, ma trova grande resistenza nel rione rosso e popolare. Morte e devastazione furono il prezzo della rivolta. S’instaura l’era fascista.
Ida resta finalmente incinta e partorisce un maschietto cui viene dato il nome del nonno paterno, Antonio, ma che viene chiamato Nino, Ninnuzzo, Ninnarieddu.
Nel 1936 Giuseppe Ramundo muore per una cirrosi epatica e Alfio Mancuso per un cancro. Venuti a mancarle il padre e il marito, Ida si ritrova indifesa come una bambina.
Nei primi mesi del ‘38 inizia anche in Italia una campagna preparatoria contro gli ebrei. Si diffonde la notizia di un prossimo censimento di tutti gli ebrei d’Italia con l’obbligo delle denuncia personale e per Nora, la madre di Ida, inizia l’attesa di un qualche evento terribile. Una sera decide di fuggire e la ritrovano alcuni barcaioli sulla battigia: con la sua morte Nora aveva preceduto di poco i decreti razziali italiani.
Iduzza, battezzata cattolica, per l’autorità è una mezzo sangue, mentre il figlio, ariano a tutti gli effetti e ignaro di avere parenti ebrei, va fiero della camicia nera.
Nel ’39, dopo il patto d’acciaio, Hitler parte alla colonizzazione dei popoli europei. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Mussolini entra in guerra al suo fianco. Nino, che all’epoca ha 14 anni, accoglie con esultanza la notizia.
Nel ghetto ebraico, un piccolo quartiere fino a un secolo prima chiuso fra alte muraglie e cancelli che venivano sprangati la sera, poi risanato, fra quattro stradine e due piazzette gli ebrei vivevano a migliaia, in compagnia di una moltitudine di gatti che si aggiravano fra le rovine del Teatro Marcello lì nei pressi. Vilma, una gattara, predicava di mettere in salvo almeno le creature.
Con la vittoria ormai certa dell’Asse, l’Italia sarebbe diventata territorio del Reich. Gli stessi cristiani battezzati dovevano provare il loro sangue ariano fino alla quarta generazione per non venire iscritti nella lista nera. Nino, sia pure di poco, nel punteggio risultava ariano.
Quel giorno del gennaio 1941, quando incontra il soldato tedesco a San Lorenzo, Ida pensò che fosse un emissario dei Comitati Razziali. Andò di corsa a casa ma non fece in tempo a chiudere la porta che il tedesco entrò di prepotenza. Nino per fortuna non c’era. Fu violentata dal soldato ma non ne ebbe coscienza per un ritorno della malattia oscura di quand’era piccola, provocato dalla paura e dall’agitazione.
Quando Ida capì che era incinta, prese a frequentare il ghetto, dove i gatti sparivano insieme agli avanzi lasciati dalla gattara, cercando protezione nel contatto con gli abitanti del quartiere. Mentre suo figlio Antonio, quando la Germania attaccò l’Unione Sovietica, cantava a gola spiegata: “Colonnello non voglio pane, voglio piombo per il moschetto!”.
Iduzza andò a partorire nel quartiere ebreo, mentre Nino si trovava in un campeggio di avanguardisti. Nacque un bel maschietto, capelli neri e occhi azzurri, registrato all’anagrafe Giuseppe Felice Angiolino, nato a Roma il 28 agosto 1941 da Ida Ramundo vedova Mancuso e da N.N.
La madre lo tiene nascosto, non lo fa battezzare.
Tornando inaspettatamente a casa Nino trova il bambino e capisce che è suo fratello. Ne è felice e dice alla madre: “A mà, e adesso che ci sta Giuseppe, allora, ci possiamo pigliare pure il cane, qua a casa!” e torna subito con un cagnetto al guinzaglio, Blitz.
Ida, dopo la scuola, andava a caccia di cibo, impegnata in una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Impartiva lezioni private per un barattolo di conserva. Giuseppe restava solo e da solo imparò le prime parole: mà, Ino, I (Blitz), stelle, dondini (rondini), ubo (buio), opi (voci), ioia (pioggia) e infine il suo nome: Useppe.
Un giorno Nino si carica il fratellino sulle spalle e con Blitz al seguito lo porta a fare la sua prima uscita nel mondo, nel quartiere di San Lorenzo. Per la prima volta Useppe vede un prato.
1943, terzo inverno di guerra a Roma. Le incursioni aeree erano sempre più ravvicinate e feroci e per i civili era una continua corsa nei rifugi.
Nino era ansioso di partire per la guerra, e verso la fine di giugno fu accolto in un battaglione di camicie nere in partenza per il nord. Il 10 luglio gli alleati sbarcarono in Sicilia. Ida era uscita con Useppe con le sporte della spesa quando suonarono le sirene e iniziò il mitragliamento dello Scalo merci. Era il 19 luglio, il primo bombardamento su Roma. Al cessato allarme Ida si ritrovò dentro un ammasso di macerie. Tutto perduto, anche Blitz. Useppe è disperato, lo conforta una donna come loro sinistrata: “Non piangere pupe’, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella, e è volato in cielo”.
Intanto la storia fa il suo corso: Il 25 luglio cade il fascismo, l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, inizia la Resistenza e l’occupazione nazista di Roma.
Tutti i giudei romani furono scovati dalle SS, si svuotò il ghetto. Si diceva che li portassero tutti a bruciare vivi nei forni.
Ida e Useppe alloggiano in uno stanzone a Pietralata insieme a tanti sfollati, vivendo come una sola famiglia.
Nino, passato dalla parte dei Partigiani dei Castelli Romani, porta il fratellino a fare una scorribanda con un camioncino e Useppe vede per la prima volta il mare col cannocchiale, mentre su un ulivo una coppia di uccellini gli sembra che cantino: “È uno scherzo, uno scherzo, tutto uno scherzo!”.
Qualche mese dopo un terribile bombardamento ai Castelli distrusse in gran parte Albano Laziale. Gli sfollati tornarono nei loro paesi e nello stanzone rimasero solo Useppe e la madre. Useppe, quando restava da solo, riceveva la visita di tanti animaletti, gatti, topi, passeri, un panda minore, che parlavano la sua stessa lingua e comprendevano i suoi sentimenti.
Poi arrivò l’ordinanza che sanciva da parte italiana la Soluzione Finale e lo stanzone tornò a ripopolarsi. Ida Ramundo era tra i vigilati speciali.
Dopo lo sbarco di Anzio, Ida e Useppe lasciano Pietralata e vanno a vivere al Testaccio in una stanzetta in subaffitto. Sul balconcino della cucina vive un coniglio che Useppe accudisce, ma un mattino nella gabbia trova solo torsi di cavoli.
La fame nera imperversa per tutta la città.
Torna Nino da Capri. Consegna alla madre una manciata di Am-lire e le dice: “Lo sai che m’hanno detto, a mà? Che tu sei giudia!”. “Non è vero, non è vero!” Ida tenta di negare. “A mà, che stamo ancora ai tempi de Ponzio Pilato? che fa, se sei giudia? Pure Carlo Marx era giudio!”.
Arrivò finalmente il giorno della Liberazione. La resa totale della Germania mise termine dopo sei anni di stragi alla guerra-lampo in Europa.
In quella primavera del ’45 Useppe, sfogliando vecchie riviste, vede le immagini terribili di un conflitto atroce che fece sessanta milioni di morti. Useppe su ogni pagina di giornale trovava la tragedia. Gli occhi gli si riempivano di orrore.
I brutti sogni di Ida e le inquietudini di Useppe si accavallano. Il bambino la notte urla e smania e la madre lo porta da una dottoressa, che nel guardarlo dice: “Ha gli occhi strani… troppo belli”.
Nino torna a casa con un pastore maremmano, di nome Bella, che diventa la seconda mamma di Useppe, finché Nino un giorno non se lo porta via. Per Useppe è una perdita insopportabile. Non se ne dà pace: ripete continuamente “Pure Bella, come Blitz”.
Ida porta Useppe a scuola, ma il bambino non viene accettato: troppo nervoso e disadattato. Il male oscuro si manifesta infine con una terribile crisi convulsiva. “Mà, pecché?” chiede Useppe alla madre.
Dopo la morte di Nino, in seguito ad una sparatoria con la polizia, si ripresenta a casa il pastore maremmano, Bella, che diventa compagna inseparabile di Useppe.
… E la Storia continua, con il lettore che non riesce a staccarsi dai personaggi che gli sono entrati ormai dentro la carne viva e lo fanno fremere di dolore e dolcezza, e l’Autrice che non riesce a scrivere la parola fine di quel romanzo grandioso e perfido che è la vita. “È uno scherzo, uno scherzo, tutto uno scherzo!” sembra di sentir cantare su un ulivo una coppia di passeri.
“La Storia” di Elsa Morante (Roma 1912-1985) pubblicato nel 1974 per l’Editrice Einaudi nella collana “Gli Struzzi”
da tellusfolio, 2015
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