La scuola ‘smaterializzata’ al tempo del Covid-19, dalla necessità all’opportunità e…una proposta
(Andrea Rega) La coerenza è uno dei must degli evergreen della Pedagogia di tutti i tempi. Sempre valida per quanti, a diverso titolo, lavorano nell’educativo. Coerenza, però, non significa mostrarsi forti, pronti a tutto ed imbattibili. Più che altro, il suo valore è nel mantenere salde, nel tempo, le posizioni prese ed affermate. Soprattutto quelle espresse a favore dei soggetti in formazione che attendono, appunto, dagli adulti (genitori, insegnanti, educatori, ecc..) una direzione. Un’attesa che è tale anche quando tutto sembrerebbe mostrare il contrario, come nel caso dell’adolescenza.
Essere coerenti, però, implica uno sforzo notevole. Per questa ragione, la coerenza non può essere confusa con l’intransigenza o la testardaggine. Le parole dette, prima di dirle e difenderle, occorre pensarle facendole proprie. Un impegno notevole, anche snervante, ma che ha il pregio di chiarire le dinamiche in campo e motivare le azioni intraprese.
Poco prima dell’attuale crisi sanitaria e delle conseguenti misure che hanno portato alla chiusura delle scuole e all’avvio della didattica a distanza, in un istituto superiore della provincia romana avvenivano casi spiacevoli amplificati dalla tecnologia e da internet. Nella circostanza, non più valida di altre visto che la cronaca ne riportava a iosa, veniva distrutto un bagno scolastico e deriso, a sua insaputa, uno stimato professore. Il tutto, chiaramente, filmato e condiviso sui social.
Le parole d’ordine, di quel periodo piuttosto recente, contrapponevano la realtà con il simulacro della stessa registrato e diffuso sulla rete. Ovvero, gli insegnanti di quell’istituto, come tanti altri con analoghi problemi, si battevano affinché i loro studenti comprendessero la gravità di quello che avevano fatto nella realtà.
Tutto risultava molto complicato. Emergeva, così d’impatto, quanto già da tempo doveva essere noto. Quei ragazzi, sia i diretti interessati che i fruitori dei ricordati video, erano del tutto avvezzi a quel tipo di linguaggio. L’azione violenta era l’unico modo per catturare l’attenzione del gruppo dei pari. Il semplice cyrberbullismo, ai danni dello “sfigato” di turno, era già démodé. Bisognava fare qualcosa in più. Distruggere cose e deridere un insegnante. In altre parole: ridicolizzare l’esperienza scolastica.
A modo suo, la scuola ha cercato di respingere queste derive. Il ministero stesso ha fatto campagne di sensibilizzazione e diramato modalità d’intervento. L’idea di fondo era quella di «rispondere alle sfide educative e pedagogiche derivanti dall’evolversi costante e veloce delle nuove tecnologie» (MIUR, Aggiornamento linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo). Ciò equivale a dire che, poco prima del Covid-19, il problema era limitare, soprattutto nel mondo giovanile, la fruizione della tecnologia. Si comprendeva benissimo come la scuola dovesse farsi carico di una “funzione termostatica”, notte tempo, suggerita da Neil Postman. Si voleva, quindi, fornire una contro-argomentazione, un pensiero critico, una via d’uscita e un’esperienza significativa. Tutto ben lontano – per contenuti, stile e mezzi adottati – dal pecoreccio spettacolo diffuso/fruito, attraverso la rete, da tanti giovani. Non pochi, tra quest’ultimi, necessitavano di interventi medici per disconnettersi e ricominciare a vivere la realtà e la bellezza. La rete e alcune tecnologie sembravano, agli occhi della scuola, più dei nemici da cui prendere le distanze che alleati per la didattica. Contrariamente a quanto, causa Covid-19, appare ora.
Si dirà è una questione di lana caprina. Ogni strumento è di per sé ancipite. La, semplicissima, penna se non utilizzata per scrivere può ferire. Eppure, si è continuato ad utilizzarla, assieme all’ancestrale quaderno, fino al marzo del 2020. Più di qualcuno, anche autorevole, ha difeso il corsivo. Scrittura ritenuta, rispetto a quella digitale, molto più utile nel processo d’apprendimento. Qualcun altro, da tempo e ancor prima che la SIP (Società Italiana di Pediatria) si pronunciasse, ha lanciato moniti preoccupanti in relazione al largo uso del cellulare fatto dai minori. Svariati neuropsichiatri consigliano di limitarne la fruizione, ad esempio, per i bambini e ragazzi con ADHD.
Da che parte sta, in questi ultimi giorni, la scuola? Forse questo “carrozzone” non va avanti soltanto grazie a colpi di legislazione d’emergenza. Neppure sono sufficienti le iniziative, spesso individuali, dei dirigenti scolastici. Alcuni dei quali, seppur animati dai migliori intenti, nell’attuale vuoto di chiari riferimenti, stanno gestendo all’americana la scuola pubblica italiana.
Qualcuno potrebbe chiedersi: Qual è, allora, l’alternativa?
In qualche modo, è innegabile: le risorse informatiche permettono la continuità didattica, accorciano le distanze tra gli studenti e tra questi e gli insegnanti. Tuttavia, il vero tema, con conseguente sostrato problematico, è ad un livello più profondo. Non si tratta di discutere soltanto i mezzi, ma di ridiscuterli in relazione ai fini. Si può benissimo smaterializzare un’aula fisica e renderla telematica. Già nel 1951, attraverso la radio, si potevano ottenere attestati professionali. Altrettanto fitta e notevole è l’attuale letteratura scientifica rispetto alle possibilità di e-learning.
Eppure la scuola, tutta insieme in tutti i suoi ordini e gradi, non può saltare il fosso, da un giorno all’altro, e smaterializzarsi. Questa grande macchina, per tanti versi ancora fortemente centralizzata, aveva il suo carburante nella coerenza della proposta educativa, nella promozione del merito e dell’impegno, nell’abbattimento delle barriere, nella presenza costante sul territorio realizzata nell’incontro con i ragazzi e le loro famiglie. Non si può sostituire tutto questo d’emblée dato che, più o meno, tutti accedono al Wi-Fi. Bisognerà prima chiedersi: è un dato di realtà o una rappresentazione semplificata della stessa? Bisognerà prima chiedersi: Tutti hanno un personal computer? La sola ansia dei traguardi da raggiungere, rispetto alla scuola ai tempi del Covid-19, sta evitando, nettamente, di rispondere alle precedenti domande e ad altre ancora non meno gravi, non meno importanti. Continuando a percorrere, in modo spasmodico e senza opportuna riflessione, questo crinale si finirà per potenziare quello che si voleva combattere. Per un’eterogenesi dei fini, proprio questa “svolta telematica” che non vuole interrompere le “trasmissioni” può minare un fondamento che, a partire dal 1962, sorregge la nostra scuola, ovvero: la partecipazione democratica.
Eppure, già da diversi anni a questa parte, è nota la questione del digital divide. Come ben spiegato da Claudia Hassan, non si tratta solo di una differenza strumentale (PC sì – PC no) o infrastrutturale (fibra sì – fibra no). Il tema è conoscitivo. Ovvero, anche quando la connessione arriva potente e il computer è di recente fabbricazione, persiste il differenziale di conoscenza. Il knowledge gap non viene compensato, bensì ulteriormente rafforzato. In altre parole, non solo può esistere una disparità nella fruizione della rete e delle tecnologie, ma anche quando questa fosse eliminata persisterebbero, ancora più forti, le differenze presenti nella stratificazione sociale. La tecnologia ed internet, in buona sostanza, finiscono per riprodurre le disuguaglianze preesistenti senza appianarle affatto. Le persone, con un maggior bagaglio conoscitivo attuano, più facilmente, la giusta varietà d’uso nell’utilizzo della rete. Ovvero, avranno facilità nell’orientarsi, nel ricercare le informazioni e gli approfondimenti giusti. In caso contrario, data l’elevata produzione d’informazione libera e a basso costo, è più facile in internet trovare la Torre di Babele che la Biblioteca d’Alessandria.
Per quanto grande quest’ultimo tema è solo la punta dell’iceberg, ben altre e più cocenti questioni dovevano essere valutate, prima di smaterializzare la tradizionale azione educativo-didattica. Bastava fermarsi a riconsiderare quanto detto da Joshua Meyrowitz e da Derrick de Kerckhove, per andarci molto più cauti. Le nuove tecnologie digitali, infatti, sono pervasive e tutt’altro che neutre. Cambiano il nostro modo di fare esperienza. Arrivando ad introdurre modificazione nella percezione di sé e dell’esterno. Tutto questo, quasi inutile sottolinearlo, si riflette sulla questione cognitiva e oltremodo sul linguaggio.
Forse, di fronte ad una tragedia sanitaria inconsueta, alla scuola spettava l’onere di valutare alternative altrettanto inedite. Per fare ciò sarebbe stato necessario mostrarsi, coerentemente, deboli di fronte ad una calamità largamente sottostimata. Per fare ciò, bisognava darsi del tempo, accettando di essere stati feriti al cuore.
Al contrario, quasi impetuosamente, tutti hanno cercato di reagire (insegnanti, presidi, famiglie, alunni ecc..). Tuttavia, le reazioni a caldo spesso sono scomposte. Una “rivoluzione copernicana” nel modo di fare scuola, come quella che si sta vivendo in questi giorni, va guidata da una riflessione epistemologica che rimetta tutto in discussione. Non può essere calata dall’alto o suggerita da uno stato d’emergenza. Si tratta di ridiscutere interi decenni di convinzioni filosofiche, umanistiche e pedagogiche che, da sempre, hanno parlato a favore di aspetti che la tecnologia non può compensare: testimonianza, esempio, presenza, relazione di cura, crescita armonica, benessere psicofisico ecc..
Rinunciando a questi aspetti, anche se auspicabilmente pro tempore, l’azione educativa diventa un discorso sterile di obiettivi e strategie e perde di vista il vero contenuto che resta la persona dello studente in tutte le sue esigenze formative.
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Anche no
Il bambino è “costruttore” di sé stesso. È una figura attiva all’interno del processo educativo, se lasciato libero nelle sue attività, ha la possibilità di scoprire e affinare le proprie abilità che spesso, erroneamente, non siamo portati ad attribuirgli. Tutto questo, però, all’interno di un ambiente organizzato che permetta di il confronto con il gruppo dei pari e l’interiorizzazione delle norme di vita comune. L’educatore in questo ambito, si trova a dover organizzare un ambiente, una giornata ed un gruppo di bambini, in modo tale da permette e sollecitare lo sviluppo autonomo non limitandosi alla sola trasmissione delle nozioni o a controllarli in modo passivo ma, regolando l’esperienza diretta. Vedere il bambino come parte integrante ed attiva all’interno del processo educativo, comporta il fatto, che non possano esistere “finti professionisti”. È indispensabile una figura professionale con competenze in campo teorico e metodologico.
In questa strana situazione, anche nei contesti educativi per la prima infanzia, viene utilizzata la tecnologia attraverso dei video in cui le educatrici raccontano le storie e le canzoni più conosciute e mostrano delle attività semplici da svolgere per far mantenere ai bambini una routine e una continuità educativa. Viene inoltre utilizzata anche per aiutare i genitori dei bambini stessi ad avere delle nuove idee sulle attività da svolgere in casa. Questa opportunità, però, dovrebbe essere ben gestita. C’è la possibilità di incappare in risultati sbagliati. Inoltre, sempre rispetto alla prima infanzia, bisogna fare attenzione all’abuso della tecnologia. A quell’età i bisogni sono altri: interagire con i genitori e tra bambini, fare esperienze sensoriali del mondo esterno e giocare.
La scuola, a causa di questa emergenza sanitaria, si è trovata, in un certo senso, costretta ad adottare la didattica a distanza attraverso dispositivi tecnologici non alla portata di tutti. Questa svolta telematica può minare il fondamento democratico che sorregge la nostra scuola. Comportando delle disuguaglianze tra studenti che non possono permettersi tali strumentazioni.
Per lavorare, a distanza con gli alunni, è necessario un cambiamento pedagogico. Non si può pretendere di farlo con la stessa modalità di lavoro che si creerebbe in un aula normale. La scuola a distanza non può sostituirsi ad una relazione educativa dove gli studenti e i professori comunicano attraverso l’incontro reale in presenza. Se si vuol costruire qualcosa di nuovo non si può fare dall’oggi al domani, si deve andare cauti e analizzare tutte le problematiche, conoscere i metodi educativi, così da sapere cosa stiamo facendo.
La didattica a distanza ha stimolato la creatività sia dei genitori che degli insegnanti. Inoltre, l’attuale costante presenza del genitore accanto al bambino che apprende porterà, una volta tornati alla normalità, ad una più intensa collaborazione tra scuola e famiglia.
Da diversi anni lavoro come insegnante della Primaria. In questi ultimi periodi, assieme alle colleghe della nostra scuola, ci siamo rimboccate le maniche trasferendo l’offerta didattica online. Proprio oggi è successo, durante la lezione telematica di aritmetica con 16 partecipanti totali, che la nostra lezione è stata hackerata. Sulla schermata condivisa, dove stavo leggendo il testo di un problema, sono apparsi dapprima segni e, successivamente, grandi emoticon. Pesando di aver commesso un errore ho controllato, sulla barra dei comandi, se avessi ceduto il “remote control” ad un alunno e se il numero dei partecipanti fosse cambiato. Nulla di tutto ciò era successo: una vera e propria “invasione”. L’episodio ha interrotto la nostra lezione telematica, ben prima dei 40 minuti concessi dalla piattaforma a coloro che scaricano la versione gratuita del software. L’esito di questo nostro fare, senza opportuna riflessione né da parte degli insegnanti né dalla direzione scolastica, ha portato, come ben denunciato da questo articolo, esiti negativi non preventivati. Nei giorni precedenti, anche altre colleghe hanno vissuto situazioni analoghe. Adesso la nostra scuola sta allestendo uno spazio informatico con regolari licenze e gestito da tecnici per garantire, come da ultimo decreto dell’Azzolina, la continuità didattica. Nel frattempo, più di un mese, il “fai da te” e la “buona volontà” ha portato scompiglio e sfiducia in famiglie, alunni ed insegnanti.
Per quanto riguarda l’infanzia, la tecnologia permette all’educatore di fornire suggerimenti ai genitori su attività da poter fare insieme al bambino, dando la possibilità di sviluppare una maggiore interazione che in condizioni di normalità sarebbe meno frequente a causa degli impegni quotidiani. In condizioni normali, però, è importante frequentare l’ambiente scolastico. In quanto permette l’incontro con i pari, con gli educatori, la socializzazione e la possibilità di imparare osservando i compagni. Inoltre a scuola si impara la vita comunitaria e il rispetto delle regole. La giornata è scandita da routine che danno sicurezza al bambino
Per quanto riguarda le scuole non dobbiamo sottovalutare il potere della tecnologia perchè in alcune fasce di età, ad esempio l’adolescenza, gli studenti non hanno un livello di maturità tale da poter gestire un potere così grande.
Per i bambini stare in contesto del genere può compensare l’esigenza didattica, ma risulta totalmente insufficiente sotto il punto di vista empatico e della costruzione dei rapporti sociali
L’aspetto importante da sottolineare è l’assenza di riflessione. Alla quale va aggiunta la mancanza di preparazione da parte di molti insegnanti per affrontare una tipologia d’insegnamento completamente diverso e ricco di insidie. L’Italia, però, da decenni agisce in un unico modo. Senza pianificare aspetta fatti straordinari per reagire. Così facendo, come ben sottolineato nell’articolo, si producono spesso più danni che soluzioni adeguate. Quello che è mancato è stato partire dal domandarsi cosa fosse più opportuno fare, proprio prima di iniziare a fare qualsiasi cosa. Nel mio piccolo, in qualità di insegnante all’estero, questa domanda mi ha seguito per due settimane, prima di passare all’azione. Un minimo di riflessione ha permesso di trovare piattaforme diverse, incentivando la ricerca delle soluzioni migliori che più si avvicinano ai nostri obiettivi