La saga degli ominidi di Aldo Onorati
Aldo Onorati ripubblica la sua sagra dei colli Albani con l’aggiunta di altri episodi e avventure, per un ulteriore arricchimento di situazioni, di personaggi, di esperienze, che sono sempre, sì, in apparenza, dei sensi e del vino e delle abboffate e delle violenze paesani, ma hanno ogni volta in fondo la tragicità della malattia, dell’invecchiamento, della morte. L’opera non è una narrazione continuata, ma una sequenza di variazioni e di vicende. Fa, per l’ambientazione popolaresca e per la lingua intrecciata di dialetto romanesco-castellano, quello più clamorosamente «parlato», una sorta di «commedia» in prosa con l’eco del Belli, di cui ha la stessa esagerazione, lo stesso clamore, la stessa giocosità feroce, spietata. Il protagonista della sagra di Onorati è, fondamentalmente, il vino: in assoluto, non importa se buono o cattivo, perché non è questione di qualità e di raffinatezza del bere, ma di quantità, di enormità, di eccezionalità, e i personaggi gareggiano nel bere, in ogni occasione, come per una corsa che è, contemporaneamente, alla quiete del sonno e del non sapere più nulla, della dimenticanza della vita e del tempo, ma anche consapevolmente della morte. C’è un personaggio che mette in moto la «saga»: è, al tempo stesso, osservatore, giudice, commentatore per una sorta di onniscienza di narratore in quanto ha la virtù della parola, ma è anche compartecipe degli eccessi del bere e del mangiare e di tutto ciò che è conseguenza delle bevute e che accompagna le vite dei beoni amici: i litigi, le violenze, le disperazioni, il disfacimento delle menti e dei corpi, la malattia, la fine sempre terribile, drammatica, disperata. I trionfi del vino coincidono con la scomparsa via via dei protagonisti delle bevute per le più degradate e disperate osterie per ore e ore e notti. Dioniso è un dio crudele, che non lascia scampo a chi gli diventi fedele. Tutti gli episodi della grande commedia del vino sono ambientati fra Albano e Ariccia: lo spazio è limitatissimo, ma infinite sono le variazioni, le novità, le avventure, le bizzarrie, gli stupori; e, in più, i due paesi albani per la forza e lo slancio creativo di Onorati si dilatano indefinitamente, si moltiplicano le osterie, le case deformi e contorte, le piazze, le fontane, le apparizioni di fantasmi, di lupi mannari, feste paesane, sagre, e i confini si ampliano un poco, giungendo fino a Marino, a Frascati e ai margini di Roma. I personaggi sono numerosi, e hanno tutti soprannomi perfettamente adeguati alle bevute affannose e prolungate, agli incontri patetici e violenti, ai litigi, ai giochi, alla degradazione, alla desolata consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Le ubriacature sono enormi, ma con in fondo sempre la malinconia dell’assenza della felicità pur nella pienezza dell’amore del vino e dello stare insieme, dell’andare la sera e la notte per le osterie più cupe, dell’altro amore dei sensi che, invece, è perduto, manca, non offre alternative all’ubriachezza e alla violenza, alla doppietta, al coltello, alle offese e alle vendette.
L’epica in prosa di Onorati vuole rappresentare anche l’impossibilità del narrare realistico, medio: per cogliere la vita com’è si può usare soltanto l’antifrasi. La violenza, la passione, l’avventura, il piacere, la morte non possono essere raffigurati come se fossero cronaca, documento, notizia di quotidiani. È necessario l’acuire al massimo la loro verità morale e d’anima, capovolgendoli nell’eccesso dell’agire e del pensare al livello più basso, più degradato, e tuttavia lì si può davvero comprendere la condizione umana, e provarne al tempo stesso orrore e pietà. Tocca al narratore giovane attraversare quel mondo solo apparentemente perduto, e percorrere, invece, a ben vedere, il brivido tentatore della follia. Il vino è Dioniso, che suscita le feste delle Baccanti, delle Evie, dei Satiri, con quello scatenamento che può condurre allo strazio di Orfeo e di Panteo.
C’è, nell’epopea di Onorati, l’altra faccia cristiana del tragico: lo strazio della vita, segreto, che si traduce nell’eccesso del vino e delle bisbocce come la sfida al Cielo, a Dio, e all’accettazione vile della banalità, della quotidianità, della norma. In fondo, c’è molto di prometeico negli stravizi dei protagonisti del grande affresco di Albano e Ariccia, così colorato, inciso da graffi di sangue e di pena, da sberleffi di irrisione e di disperazione, da lacerazioni e da sfrenate vittorie sulla fatica tenace del vivere. Il protagonista, che racconta, descrive, nomina, giudica, si serve di un linguaggio adeguato alla grandiosità dionisiaca e mortuaria degli episodi, delle situazioni, degli avvenimenti: il parlato, nutrito di dialetto romanesco-castellano, con scatti frequenti di trovate originali, di metafore, di similitudini che portano all’estremo l’efficacia dell’epica bassa, «comica», tipica della scrittura di Onorati. Il dialetto diventa spesso grido, urlo, esclamazione, celebrazione, maledizione, disperazione, crudeltà, sconfitta; ed è l’aspetto travolgente e sentenzioso del poema albano di vita e di morte. La narrativa non può essere semplice mimesi della quotidianità e della storia. La sagra epica di Onorati è la mirabile alternativa alla moda romanzesca dei nostri tempi.
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