La religione dei romani
Mos maiorum, la tradizione degli avi, la cultura arcaica cui i Romani faranno sempre riferimento nel loro essere rivolti al futuro. Roma crogiolo di culture e di religioni, fondanti sull’incontro tra civiltà indoeuropee e mediterranee che, attraverso un procedimento di stratificazioni e apposizioni successive, giunse a elaborare in mille anni l’idea di uno spirito universale e rigeneratore basato sull’unità del divino. L’uomo romano è un uomo pio degno del mitico antenato, il pius Aeneas, ma la sua religiosità non tange la sfera dei sentimenti affettivi. Essa si volge al Divino attraverso la ricerca dell'”essere” appropriato al suo confronto; pietà filiale, patriottismo, i sacri valori, pietre miliari di questo modo di “essere”. Per Cicerone la religiosità (pietas), sarà la giustizia verso gli dei: «pietas iustitias adversum deos». La religio è il cultus deorum, ovvero l’arte di onorare gli dei (colere); la religione è una pratica. Alla giusta religio si contrappone la neglegentia: la superstitio nega per eccesso, la neglegentia nega per difetto. Il sacrum per Rudolf Otto è un mysterium tremendum, un mistero che fa tremare. Nella Roma arcaica il crogiolo fonde il nucleo mediterraneo della Terra Mater e le sue emanazioni di potenti divinità femminili con i tre grandi Dei funzionali dell’ideologia tripartita di origine indoeuropea: sovranità, forza guerriera e fecondità. Nel 509 a. C., secondo la tradizione, ha termine l’occupazione etrusca la cui cultura, fino a quel punto dominante, viene messa da parte in quanto tra ellenismo e il pensiero dei romani si va instaurando un fecondo rapporto di simbiosi. L’ellenizzazione del pantheon romano procede attraverso l’assimilazione e il prestito. L’assimilazione tradotta come interpretatio graeca è un fenomeno di traduzione fondato su un sistema di equivalenze tra divinità corrispettive, attraverso il quale gli dei latini, pur conservando immutati nomi e riti, acquisiscono i caratteri antropomorfici (personalità, iconografia, mitologia) delle divinità greche omologhe per funzione divina. Giove, dio sovrano, signore della folgore, garante del giuramento, della buona fede e dell’ospitalità è identificato con Zeus, del quale assumerà il volto barbuto, lo scettro e il suo uccello simbolico: l’aquila. Marte, signore della guerra, sarà assimilato ad Ares, ma mentre nella triade indoeuropea non ha legami genealogici con Zeus, a Roma sarà figlio della coppia sovrana Giove-Giunone. Giunone sarà identificata con Era, dalla quale deriverà oltre all’iconografia, la dignità matronale e persino il carattere irascibile – tale almeno appare in Virgilio -, sorella e sposa del re degli dei. L’interpretatio è fenomeno generalizzato tra le religioni antiche e solo l’egizia era ritenuta inassimilabile (quindi l’ambito di ogni divinità era ben definito nelle diverse culture). Erigere un tempio a una divinità straniera era creare un tramite per le sue genti e con esse. Libero è assimilato a Bacco-Dioniso (come lo era stato il Fufluns etrusco), dio dell’estasi mistica e della salvezza nell’altro mondo, signore delle iniziazioni violente; la vite e il vino sono i mezzi di apertura dei sensi. Cerere è assimilata a Demetra, dea greca dispensatrice di cereali, che ha rivelato la cultura del grano e approda sulle rive del Tevere minacciate di carestia, coi carichi campani. Demetra è la dea dei misteri Eleusi, madre dolorosa di Persefone, che le viene sottratta per il tratto dell’anno in cui è costretta negli Inferi. Mentre l’interpretatio si limita a complementare e definire caratteri preesistenti, è tramite il prestito che il pantheon romano si amplia con le adozioni di Castore, Apollo (Apollon), Ercole (Heracles), Esculapio (Asclepios). Più difficile credere che il Mercurio cui si consacra nel 495 a. C. un tempio al Circo Massimo sia diretta importazione dell’Hermes greco, in quanto non ne conserva il nome. Il Mercurio romano (merx, merces) è prettamente il dio dei commerci, mentre l’Hermes greco presiede agli scambi interumani in senso assai più lato, non tralasciando quelli frutto di razzia né quelli verbali e culturali.
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