La Possessione
Poichè i rumori della vita gli toglievano concentrazione, preferiva scrivere di notte.
Solo qualche occasionale auto di passaggio e il rimbombo lontano della città creavano un sopportabile disturbo di fondo che tutto sommato gli fa-ceva compagnia.
Stava nel cerchio di luce della lampada rosata della nonna, attorniato dalle ombre note della vecchia casa, premurose confidenti dei sussurri della sua penna che tracciava parole e parole sui fogli rigati d’azzurro di un grosso quaderno.
Nella notte d’estate, dapprima confuse un sospiro col volo di una zanzara e cercò di scacciarla con la mano, infastidito. Ma la cosa si ripetè, non più confondibile col rumore di un insetto, e a questa si aggiunsero altre perce-zioni, fruscii, bisbigli, bagliori, moti dell’aria che poco a poco si addensa-rono in un corpo fisico di larghezza, altezza e spessore misurabili.
Un Corpo che stava alle sue spalle. Non lo vedeva, in realtà, perchè, raggelato, non era riuscito a girarsi, ma lo percepiva nella mente con precisione, come con un terzo occhio apertosi d’improvviso sulla sua nuca. Ritenne superfluo dire “Chi sei?”, si limitò a pensarlo, stupendosi della na-turalezza delle proprie reazioni.
Ma non si sentì rispondere.
Con un’indifferenza ed una freddezza inattese di cui si sentì offeso, il Cor-po non lo degnò della minima attenzione e mosse una mano fino a farla combaciare con la sua, aderendo alla pelle come fosse entrata in un guan-to.
Così vide la mano muoversi al di là della sua volontà, aprire le dita, pren-dere la penna, raggiungere il foglio nel punto esatto in cui la scrittura era stata interrotta.
Ed iniziò a scrivere raccordandosi perfettamente allo scritto precedente, completando la parola e la frase interrotte senza la minima discontinuità. La calligrafia era indistinguibile dalla sua, la pressione della penna sulla carta era la stessa. L’unica differenza era che ora guardava la mano scrive-re senza guidarla e leggeva le parole senza conoscerle prima che fossero scritte perchè, a quanto pareva, venivano da un cervello non suo.
Con un’assurda serenità che non si accordava al suo carattere nè alle circo-stanze si mise ad osservare il fenomeno di cui era oggetto. Analizzò con lucidità i suoi sentimenti, l’assenza di timore e di emozioni, la curiosità e soprattutto la rabbia per l’indifferenza della forza che lo possedeva, simile a ciò che lui stesso poteva provare per un oggetto inanimato. Una penna, ad esempio, che deve essere del giusto peso, scorrevole, ben impugnabile, uno strumento a cui chiedere obbedienza e nulla più.
Capì di essere usato come una penna.
Per averne conferma, chiuse gli occhi e si abbandonò alla Forza.
La mano scorreva veloce, tracciando frasi sconosciute.
Alla fine di ogni riga andava a capo a quella seguente, al termine di ogni foglio si interrompeva e riprendeva a quello successivo.
Ad occhi chiusi, contò le righe di ogni pagina.
Erano tante quante lui stesso ne avrebbe scritte, guidato dalle linee azzurri-ne del foglio. Il burattinaio era diligente, rispettava le righe, imitava la sua calligrafia e, presumibilmente, usava il suo stile, i suoi vocaboli, i suoi vezzi letterari.
Presumibilmente non faceva errori di ortografia.
Tenne gli occhi chiusi fino a che sentì la mano rallentare ed infine fermar-si.
Il burattinaio, indifferente come quando vi era entrato, uscì dal suo corpo. Solo un fruscio lieve come un alito di vento segnalò il suo distacco.
Aprì gli occhi, guardò la mano che ancora stringeva la penna.
Era di nuovo sua, non era stata rubata ma solo presa in prestito.
L’entità che l’aveva posseduto era sparita, lasciando un lieve torpore e for-se un rimpianto.
Aprì il quaderno ed iniziò a leggere le pagine sconosciute.
Arrivato alla fine, dovette piangere.
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