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La poesia bifronte di Marco Onofrio e Raffaello Utzeri

Aprile 07
20:55 2013

Sono intervenuti, a presentare l’evento e descrivere gli intenti e lo spirito dell’opera, Domenico Gilio e Daniele Ricca. Il piccolo teatro, ricavato da una chiesa sconsacrata, si riempie di silenzio, luce e vita. Risplendono le parole. La poesia si fa carne e suono. Conosciamo le “gianiche”, ma ascoltarle dal vivo è altra cosa. Le due linee poetiche si intersecano in una vita simbiotica, autosostenentesi nell’abbraccio quasi “desossiribonucleico” dei versi: un DNA nel quale i ritmi del metro e le metafore, come catene di timine e acitosine, si legano a spirale, si avvolgono, si cercano fronteggiandosi da una costante vicinanza, pur senza raggiungersi mai: è la coda di un cane cercata ostinatamente ad infinitum, è un’orbita di due anime intorno a un comune, invisibile baricentro. Una danza quasi astrodinamica di lettere e parole, in volo intorno a se stesse, come stelle binarie. Le voci si inseguono, simili a raggi di luce catturati da un prisma: procedono in linee affatto divergenti, quasi repulsive, eppure ne escono per qualche alchemico sortilegio coerenti, coese, inspiegabilmente ritornanti sul luogo delle loro fonti emissive a formare un’iride circolare completa, chiusa e, pur sempre, illimitata. “Eco a capo”: questo il demone poetico evocato dall’amico Raffaello, che inventa, e-venta anzi, tirandolo fuori dal vuoto potenziale, un formulario metrico tutto nuovo. L’andare a capo diventa dunque criterio cosmogonico, demiurgico: esso termina e definisce un mondo, accendendone un altro, pompando linfa come scintilla primigenia nel verso successivo. Che a sua volta vive, fiorisce, muore; come ogni uomo.
Difficile definire i due canti: trattasi di onde di portata diversa, mosse da energie tra loro lontane, abitanti ai margini opposti dello spettro poetico: onda lunghissima l’uno, Marco; onda breve, pulsante, l’altro, Raffaello. Come a dire, infrarosso e ultravioletto; tratto e punto di un Morse elegiaco; effusione magmatica contro esplosiva eruzione lapillica; pensiero e azione; legge e braccio; amore tantrico contro elettrico sonar di getti orgasmici; avvento e crocefissione. Eppure essi riescono co-riempienti, complemento dell’Uno che è equilibrio in dunamis, moto perenne per non spegnersi e morire. Respirano, questi versi in movimento. Sono, per così dire, armonici: la portante offerta dal verso dilatato di Marco, che costituisce il telaio del mezzo, la dorsale poetica del significato; la modulante rappresentata dal verso di Raffaello, i cui picchi di suono alla Dirac si innestano nel nastro connettivo sottostante e ne definiscono le altezze; si fanno portatori di informazione che è tale solo quando è “difformazione”, stacco lampeggiante dal buio di una radiazione monocroma di fondo, elegia in forma di punteggiatura sul nero del vuoto; astrazione dalla stasi che altrimenti è morte, perché priva di logos.
Nella poetica di Giano la parola scritta, cercata, tornita con maniaca compulsione, sostenuta dal ritmo dei respiri, non esprime più evocazione (o almeno, non solo): essa si fa non già portatrice di un messaggio, ma innesco; lo ingenera nell’interprete in virtù di un’autocombustione. La poesia non è creata dal mondo, la poesia crea il mondo. Nulla del contenuto codificato nelle forme poetiche esiste durante la trasmissione, non più di quanto esista il calore dentro una radiazione elettromagnetica. La poesia forgia l’Universo, anzi il Multiverso dell’Uomo all’interno dei gangli ipodermatici del ricevente, nell’attimo stesso in cui essa viene percepita. La poesia non informa, non evoca, non comunica. Essa induce piuttosto la creazione e la solidificazione dell’atto cosmogonico intorno alla gabbia esistenziale dell’uomo; nell’agglomerato quantico più profondo del suo Essere, dove è incastonato lo Specchio, dove la menzogna non resiste più di qualche picosecondo, dove il non-vero vive meno di una particella subatomica. È dentro questo brodo attivo, ricco di strutture organiche, cognitive, emotive, che si innestano le scintille dei versi di Marco e Raffaello. Guardiamoli da un punto di vista più universale: cosa rinvenire se non la linfa primordiale di Lucrezio, l’eco darwiniana di cellule mute e guizzanti, affamate di vita, pronte a fagocitare mangiare divorare altre cellule per poi abbandonarsi a splendide e panorgasmiche mitosi?
Raffaello e Marco sono due uomini che non hanno paura di rimboccarsi le maniche per immergere le esperte mani dentro questo sangue bianco, pieno di cellule vive e pesci abissali, pronto a ricevere scosse galvaniche e lampi di energia, necessarie scariche a dar vita a mostruose visioni, raccapriccianti visuali sporte su verticali abissi, agghiaccianti agnizioni sugli strapiombi della nostra anima. Lo fanno con cognizione, con convinzione, con pervicacia, con la visionaria determinazione, si lasci dire, dell’assassinio premeditato. Marco e Raffaello riescono in questo intento, a prima vista impossibile: conglobare dentro il verso poetico l’eternità di un Io più vasto, un Sé dilatato, un verme esteso all’intero spazio-dominio dell’esistenza umana, indietro fino agli urli del silenzio precambriano, ai cicalecci degli astri, quando i proto-uomini osservavano le stelle da pozze di acqua sterile e fredda, giù fino a catturare la presenza asfissiante dell’Oggi, adsorbire le dinamiche post-socio-atomiche, contenere la fitta pioggia di cenere e messaggi pubblicitari, l’orrore del vivere quotidiano, la simbolica auto-“vomitio” che ci permette di rigurgitarci a fiotti nel vuoto delle solitudini urbane, mano nella mano, all’interno dei centri commerciali, con gli occhi sbarrati sul vuoto, come mandrie di gnu che hanno perso la via.
Tutto questo vive nella cosmogonia dei versi di Giano. Perché Giano è niente, ma è anche tutto: è bicipite, è quadricipite, è onnicipite, è testa moltiplicata fino a osservare se stessa dalla nuca; è vita e sostanza, è morte e finzione, è autocelebrazione, è riverbero di astri sepolti, è specchio e specchiato, è cerchio e confine; è Escher che disegna se stesso con le sue mani autocreanti, è fine e inizio, staccionata per contenere e – infine – liberare quei sogni che belano ormai a testa bassa da tempo immemore.

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