La natura, l’uomo, la conoscenza fra culture, oltre il razzismo
Appunti di viaggi reali (reportages, biopic, docu-film)… e prima solo immaginati
(Nulla chiude come un cerchio, a volte sì, ma molte cose ritornano)
(Serena Grizi) La pandemia da covid – 19 mette gli abitanti del Pianeta davanti alle loro incapacità, o fragilità, o alla reiterazione di errori di veduta (specialmente imputabili all’ultimo secolo) che se ne sia coscienti o meno, ed anche all’aspirazione, fallita secondo molti, di condividere il pianeta alla pari con le altre forme viventi, continuando a creare invece, dove possibile, distinzioni razziali senza senso. Nelle sue eccezionali storie sull’Africa (Ebano, Feltrinelli) il reporter e scrittore Ryszard Kapuściński (1932-2007) ebbe il coraggio di dire (dopo averla attraversata per oltre trent’anni) che l’Africa non esiste in quanto una realtà tanto grande e tanto complessa non poteva essere ridotta ad un nome dato per comodità da chi non ne possedeva neppure i linguaggi per poterne comprendere forme sociali e d’espressione. Guardando i continenti dei bianchi da questo ‘mondo nel mondo’ si riconoscono molti guasti: perché ha prevalso la civiltà occidentale a discapito delle civiltà non scritte, tramandate a voce (molti glottologi ed etnologi potrebbero spiegare in pratica cosa abbiamo perso e continuiamo a perdere); e chissà se quel mondo vessato dal colonialismo e dallo schiavismo che ne contagiò l’animo profondamente, potrà avvantaggiarsi ora, nella seconda parte della storia che sembra attendere il Mondo. Quella nella quale la conoscenza della natura e delle interdipendenze profonde tra questa e gli esseri umani (natura di cui questi fanno parte e che non guidano come molti hanno saggiamente capito) potrebbe essere la chiave per un pianeta meno ingiusto…
L’attore Klaus Kinski (1926-1991) di origini polacche naturalizzato tedesco, che diretto dal regista Werner Herzog interpretò molti film geniali e controversi (Nosferatu, Fitzcarraldo), e l’ultimo in collaborazione tra i due, Cobra verde (1987), tratto dal romanzo di Bruce Chatwin Il viceré di Ouidah nel quale si dipana la storia d’un mercante di schiavi che subisce, infine, la fascinazione dell’Africa come già aveva subito quella per la sua terra natale, il Brasile, diventando nemico dell’uomo bianco, di se stesso, morendo disperato nel mettere in atto il sogno del ritorno. (Nell’immagine web Werner Herzog, Claudia Cardinale e Klaus Kinski durante la lavorazione di Fitzcarraldo).
Kinski, il suo carattere particolare messo in luce dal docu-film Kinski. Il mio nemico più caro (1999) di Herzog, fu un grande interprete ma non un teorico come il regista tedesco che, indagando i rapporti tra gli uomini e la solitudine di alcuni di questi di fronte all’ineffabile, pensò per i suoi personaggi una natura invincibile, contro la quale essi lottano strenuamente, anche per portare la loro idea di cultura che lungi dall’essere naturale, impone luoghi e modi del tutto strutturati dall’umano. Eppure l’orrore verso la natura, una natura a tratti implacabile per la sopravvivenza umana, in Kapuściński e in Herzog (Grizzly Man,2005, due anni dopo uscirà sull’argomento il più famoso Into the Wild diretto da Sean Penn) è vinto dalla bellezza suprema che essa stessa è capace di mostrare (perfino Kinski – che sembra non amasse per niente la natura selvaggia, se non come idea lontana, romantica – al termine del bel docu-film dedicatogli da Herzog gioca mirabilmente con una fragilissima farfalla). La bellezza è una sorta di faccia buona e seduttiva della natura dietro la quale sussistono meccanismi primordiali perfetti, che muovono le sue forze e le consentono di preservare, sempre, se stessa.
La lotta natura-cultura (presenza umana) sembra insanabile, anche se tutte e due portano bellezza (il sapere aiuta l’uomo a comprendere meglio la natura di cui è parte ma la natura è insensibile ai suoi saperi); questo sembra rilevarsi da ciò che dichiara Herzog durante le riprese di Fitzcarraldo (1982), e rimarrà un suo pensiero valido anche molti anni dopo: «Sfidiamo la natura e lei si rivolta. È grandioso. Dobbiamo accettare il fatto che la natura sia molto più forte di noi. Kinski dice che è piena di elementi erotici. Io la vedo piena di oscenità più che di erotismo. La natura qui è violenta primitiva, non vedo erotismo qui, ma piuttosto fornicazione, asfissia, soffocamento, lotta per la sopravvivenza, crescita e putrefazione (…) a uno sguardo più attento si scopre una certa armonia. È l’armonia del massacro collettivo. Ma lo dico pieno di ammirazione per la giungla. Io non la odio, la amo molto, ma contro il mio buon senso». tratto dal docu-film Kinski. Il mio nemico più caro: https://www.youtube.com/watch?v=tRfxtpxxHhU
Per tornare al versante dei rapporti fra uomini, nello scenario che è stato dato loro per vivere, secondo una interessante tesi di Kapuściński gli ambasciatori della conoscenza, i diplomatici dell’incontro, dagli albori del mondo, furono di una qualità molto particolare che diede l’impronta a tutto ciò che venne dopo: «Il dramma delle culture (…) compresa quella europea, è consistito in passato nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quasi sempre il monopolio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari dabbene, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall’internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. (…) Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, avvicinarsi e compenetrarsi, diventano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti l’una all’altra. (…) le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle.» Da Ebano, Feltrinelli 2018, pag. 277.
La tragica attualità racconta come continuino i crimini a sfondo razziale: alimentati da ignoranza che alimenta le distanze.
A proposito delle odierne strumentalizzazioni dell’informazione operate ai danni di culture che si vogliono descrivere sempre come arretrate, che si continuano a considerare ‘colonie’, scrive la giornalista africana Nanjala Nyabola (nell’immagine d’apertura) nel suo articolo uscito su The Nation dal titolo Africa is not waiting to be saved from the coronavirus e tradotto da Internazionale 5/11 giugno 2020 n. 1361 – anno 27: «La pandemia di covid -19 richiede strumenti che i mezzi d’informazione non sono abituati a usare, uno dei quali è pensare a come questo momento sarà visto tra cinquanta o cento anni. Il che ci riporta alla sfida originale: cosa diranno gli archivi sul comportamento degli africani durante la pandemia di coronavirus? Racconteranno che gli stranieri sono venuti ad aiutare popolazioni che si stavano già aiutando da sole? O parleranno dell’arrivo dei salvatori stranieri, descrivendo gli africani come destinatari passivi di aiuti dall’estero? Come possiamo raccontare la complessità o l’intraprendenza delle comunità africane di fronte a questa pandemia? Questo è il compito dei giornalisti che scrivono di Africa e covid-19: dare spazio a tutte quelle comunità che il potere non vuole ascoltare. È una sfida formidabile». Questo pensa N. Nyabola, e noi con lei. Immagini web
L’articolo in altra versione appare anche su: https://variazioni286450722.wordpress.com/2020/06/07/cambiare-imparando-dalla-storia-e-dalla-geografia/
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