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La miopia dei partiti

Maggio 23
07:38 2012

La politica è in fermento, circa dieci milioni di italiani sono chiamati alle urne, è il primo test con un Governo di tecnici, niente promesse, nessun proclama, sobrietà e la mannaia sugli scandali dei partiti. Si fa un gran parlare, nello stesso tempo si declassa l’importanza delle elezioni.

Certo è ridicolo che partiti e talk show diano importanza settimanale a sondaggi di gradimento politico, evidenziando avanzate o arretramenti di uno o due punti, tutto ottenuto intervistando un campione di mille persone. Dieci milioni di cittadini chiamati al voto sono stati considerati non attendibili. Dalle urne, per chi non se ne fosse accorto, è arrivato un sondaggio reale negativo per i partiti, da chi crede di esser ‘restato in sella’, agli ‘esodati della politica’. Unici risultati positivi a sinistra e, anche se c’è chi dice che non ha sentito il boom, il movimento 5 stelle. Basterebbe aprire gli occhi per capire che superare il 19% è un’indicazione precisa ai partiti e a tutti quei sondaggi inutili. Ancora una volta il crollo dei partiti è attribuito a giudici (vedi Lega), ad assunzione di responsabilità verso il paese (vedi PDL), o considerazioni di essere il futuro perno politico (vedi PD). Unica nota stonata l’UDC che denuncia il fallimento del terzo polo, vedendo nel voto un “cumulo di macerie per i moderati“, una strana posizione della realtà a cui i nostri politici non ci hanno abituato. Forse è proprio sui ‘moderati’ che bisognerebbe riflettere, aspettando (l’Italia non è una nazione dalle analisi frettolose) che il tempo ci permetta la lucidità di analizzare il ventennio burlesque-berlusconiano.

Ad ascoltare le dichiarazioni post elettorali tutti hanno intravisto colpe in fatti o avvenimenti da attribuire a terzi. Non un politico ha evidenziato l’incapacità di dialogo tra palazzo e cittadini, oltre allo scollamento territoriale dei partiti che si sono arrogati l’unicità della rappresentanza. Parlamento e partiti non sono in grado di presentare una soluzione economica (con tagli reali e non di facciata) in grado di contribuire al risanamento del deficit dello stato. Voltandosi a guardare la politica italiana, si nota che cambiamento e alternanza sono solo parole da vocabolario. Sin dagli inizi della Repubblica, i cosiddetti “moderati” hanno assunto la guida del Paese, con sporadiche contaminazioni socialiste o socialdemocratiche (tra 1,5 e 3 % politico, ossia ago della bilancia tra DC e PC), chiusasi con l’era craxiana (periodo dove i socialisti hanno ottenuto percentuali a due cifre).

L’immobilismo è stato e resta un punto fermo dei partiti, al massimo si fa un restyling, un cambio nome, un passaggio momentaneo di consegne – o cambio di militanza – scanditi da interessi personali e visibilità mediatica. I personaggi politici sono ancorati alla vita parlamentare (con incarichi di vario titolo o responsabilità amministrative) in un periodo variabile dai trenta ai cinquanta anni, per qualcuno anche oltre. Quale cambiamento possiamo aspettarci dalla stagnazione della politica? È sufficiente proclamare (verbalmente) prima, seconda o terza repubblica? Le democrazie occidentali ci mostrano il cambiamento: USA due mandati alla presidenza, successivamente al servizio del paese; la stessa cosa avviene in Francia; Germania ed Inghilterra hanno un sistema elettorale che permette un’alternanza continua. L’Italia dalla stagnazione cinquantennale dell’epoca DC non è riuscita a trovare un’alternanza progettuale di crescita nazionale. Interessi diversi hanno perpetrato tornaconti clientelari (spesso correlati con organizzazioni criminali) al sud, così come un arroccamento di benessere (conseguito con lo sfruttamento di migrazione e statuti speciali regionali) sviluppatosi nel nord. In entrambi i casi i politici hanno difeso feudi ed interessi personali.

Il problema italiano non riguarda solo la stagnazione politica, questo effetto si riflette anche nell’amministrazione pubblica, dove un numero indefinito di burocrati dirigenti diventa inamovibile negli uffici ministeriali, con stipendi indicibili e un potere al di sopra di qualsiasi ministro. Un’immensa rete in grado di far funzionare l’apparato pubblico, o di bucarsi a piacimento con inefficienze o fughe di notizie, secondo il gradimento politico di partito o, peggio ancora, di interessi personali, dove le responsabilità fallimentari dei manager ricadono solo sui cittadini. La struttura politico-amministrativa italiana ha un’età media che supera di molto i 60 anni, buona per pensare all’imminente (si spera) pensione, ottima per dedicarsi ai nipotini da nonni. La politica ha necessità di idee giovani, con il supporto dell’esperienza, ma l’intraprendenza politica di soluzioni attuali con lo sguardo mirato al futuro. Solo forme di alternanza e ricambio generazionale sono in grado di confermare il progredire nel tempo.

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