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La lunga strada per salvare il clima

Dicembre 07
16:20 2009

In queste ore, a Copenhagen, si sta lottando per affrontare i disastri provocati dal global worming. Una sciagura annunciata che si è realizzata a 37 anni di distanza dalla prima Conferenza ONU sull’Ambiente (Stoccolma, 1972), quando fu avviata l’annosa trattativa per porre fine alla “guerra” che oppone le ragioni del progresso umano alle necessità del pianeta. Emerse allora, per la prima volta, una “questione ambientale” che finalmente orientò l’idea di sviluppo – legato allo sfruttamento delle risorse per la produzione di ricchezza e di occupazione – nell’ottica di uno sviluppo sostenibile, e perciò compatibile con la salvaguardia dell’ambiente. Ma la situazione muta di continuo e la Terra non riesce ad adeguarsi ai nostri attacchi inquinanti. Gli sconvolgimenti – dicono gli osservatori – corrono più veloci dei rimedi: i ghiacciai si sciolgono e il mare li inghiotte, migliaia di speci si estinguono ogni decennio, e si continua a fare proseliti siglando protocolli che spostano sempre più in avanti nel tempo le attuazioni concrete. I buoni propositi di Stoccolma infatti, saranno confermati solo nel 1992, quando 188 Paesi si riuniranno a Rio De Janeiro, nell’ambito della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) per stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera. Entrato in vigore nel 1994, il provvedimento prevedeva un progressivo perfezionamento attraverso dei protocolli che avrebbero posto dei limiti obbligatori alle emissioni. Il più noto di essi è il Protocollo di Kyoto, che oggi impone ai paesi industrializzati di ridurre il rilascio di elementi inquinanti del 8% rispetto ai livelli registrati nell’aria nel 1990, entro il 2012.
Il 2002 è stato invece l’anno di Johannesburg: lo sviluppo sostenibile qui è inteso come il conseguimento dell’integrità ecologica e dell’efficienza economica, ma guardando alla questione dell’equità sociale. Un cambiamento di rotta che in seguito porterà a includere, tra i 192 paesi riuniti alla conferenza di Bali sulla “road map” (dicembre, 2008), anche quelli appartenenti alle aree in via di sviluppo – potenzialmente le più colpite dagli effetti ambientali – secondo il principio delle responsabilità condivise ma differenziate. Un anno fa è stato dichiarato che consumare meno energia (per i trasporti, per il riscaldamento, per l’elettricità) servirà a ridurre le emissioni di ossido di carbonio: questo almeno, è l’impegno che da solo dovrebbe bastare a realizzare il 60% dei risultati attesi dalle politiche d’intervento per il 2030 e a impedire che la temperatura del pianeta possa aumentare di più di 2° celsius.
Eppure le emissioni di agenti inquinanti sono aumentate, soprattutto alla fine del secolo scorso, per ragioni complesse. Il rapido sviluppo industriale di Cina e India ha comportato un massiccio utilizzo di combustibili fossili, soprattutto del carbone che, da solo, causa il 70% delle emissioni totali, registrate tra il 1990 e il 2006. Il disimpegno mostrato da molti governi – compreso il nostro – verso il potenziamento delle fonti d’energia rinnovabili, indirettamente contribuisce all’inquinamento, e tutto ciò pur di difendere gli interessi economici in un regime di competizione che oggi si allarga anche ai paesi in via di sviluppo e per la mancanza di volontà (o d’interesse) nel realizzare investimenti a lungo termine sull’intera filiera di produzione energetica, troppo condizionata dall’andamento dei prezzi del petrolio, dalla distribuzione geografica delle materie prime, dai costi per la ricerca e l’estrazione, dagli accordi economico-politici tra i vari stati.
Solo oggi si sta imparando a dar conto di cosa significhi “riscaldamento del pianeta”, di quello che accadrebbe se i ghiacciai dei Poli continuassero a sciogliersi alla velocità attuale, di quanto anche molte delle malattie respiratorie o polmonari più comuni (come l’asma) siano provocate proprio dai gas coi quali avveleniamo l’aria.
Ma nonostante i buoni auspici dell’UE e le parziali aperture cinesi, le cose si muovono con lentezza. E mentre l’Europa decide di tagliare le emissioni di una quota compresa tra l’80 e il 95% per il 2050, quello del 2009 potrebbe essere il primo Natale senza renne, che sono, appunto, sull’orlo dell’estinzione.

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