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La legge è disuguale per tutti

Aprile 04
02:00 2008

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, così recita l’art. 3 della Costituzione, che non implica la verità della proposizione inversa: la legge è uguale davanti a tutti i cittadini. Da a R b non deriva necessariamente b R a, tant’è che si specifica quando la proprietà simmetrica (in cui consiste questa coimplicazione) è valida. Se la Costituzione fosse stata redatta da un logico, nell’articolo 3 si sarebbe letto: “e viceversa”. Questa ‘dimenticanza’, che può essere superficialmente scambiata per un cavillo logico, in realtà ha una sua origine nell’oscuro regno del subconscio, da cui nasce ogni prodotto dell’ingegno umano, prima di essere ‘illuminato’ dalla ragione della ‘coscienza’. L’uomo sa, nel suo profondo, che ‘per lui’ non è possibile creare una legge uguale per tutti gli uomini o meglio – si può obiettare – la legge ‘nominalmente’ può essere prospettata come tale, ma la sua applicazione risulta diversa da caso a caso, perché possono variare le circostanze (un matematico direbbe: le condizioni al contorno) che determinano la sua applicabilità. Fin qui, nulla da eccepire, se non fosse per il fatto che il riconoscimento di queste ‘circostanze’ è affidato al giudice e, prima ancora, all’abilità dell’avvocato di riconoscerle e sapere renderle note con chiarezza ed efficacia al giudice. Ma poiché in un contenzioso i litiganti sono due e ciascun difensore è pagato per ‘vincere’(e non per far ‘trionfare la verità’), fra i due (quando sono bravi) s’instaura una gara senza esclusione di colpi, che vede ciascuno impegnato nella ‘caccia’ alle circostanze favorevoli alla propria parte e nel cercare di oscurare, o minimizzare, quelle favorevoli alla controparte. Il tutto dipende dalla personale abilità, competenza e facoltà d’interpretare, a favore o sfavore, quelle circostanze, da parte di ciascun avvocato. In altri termini, quelle che per un problema matematico sono condizioni al contorno chiare, nette, uguali per tutti e ineludibili, in una causa giuridica sono spesso confuse, sfumate, e diverse per tutti, perché affidate alla loro ‘interpretazione’, che non può che essere soggettiva. Per cui la “dura lex sed lex” dei Romani diventa il trionfo del relativismo soggettivo. E questo, credo, è l’unico campo in cui anche i più accaniti relativisti auspicherebbero di poter mettere da parte i servigi del relativismo, tanto fruttuosi in altri settori. La conclusione è che la legge (quella applicata) risulta disuguale per tutti, in perfetta sintonia con la Costituzione, nel cui articolo 3 manca quella piccola ma essenziale aggiunta: “e viceversa”. E poiché l’articolo 101 della Costituzione recita: “La giustizia è amministrata in nome del popolo” (ma non dal popolo!), ne segue che tutti noi cittadini siamo affetti da una inguaribile forma di autolesionismo che ci fa avallare questa disuguaglianza della legge, ovvero, ci lamentiamo paradossalmente delle ingiustizie che subiamo, perché in realtà sono a noi ‘comminate’ in nome di noi stessi, quasi come autopunizioni di colpe segrete.
Una delle espressioni più tristi di questa tesi (la legge è disuguale per tutti) riguarda lo Stato stesso, attraverso il trattamento che riserva ai ‘suoi’ professori. Una volta (cioè circa un secolo fa) si diventava professori ordinari o di ruolo in seguito a difficili e seri concorsi, e i professori non di ruolo si dovevano accontentare di supplenze saltuarie e incarichi, nel migliore dei casi, annuali. La distinzione di merito, insita nel riconoscimento del ruolo, aveva un senso anche sul piano operativo. La presenza del professore non di ruolo nella scuola era saltuaria e temporanea, mentre quella permanente era assicurata dal professore ordinario, che offriva un servizio ‘certificato’. Oggi, invece, tutto è stravolto su qualunque piano: del merito, operativo e della giustizia. E’ ormai di dominio pubblico quanto il merito sia l’ultimo responsabile dell’esito dei concorsi statali in generale e per l’ingresso nell’insegnamento in particolare, essendo, invece, la ‘conoscenza’ della ‘persona giusta’ (preferibilmente di connotazione politica) l’elemento risolutivo, per cui decade di fatto la pretesa distinzione fra docenti che hanno o no il marchio di qualità del ‘ruolo’. Sul piano operativo e della giustizia (la legge è disuguale per tutti!) le cose vanno ancor peggio. La situazione nella scuola è (ormai da molti anni) questa: rimane la distinzione ufficiale (che di per sé non è da condannare) fra docenti di serie A (di ruolo) e di serie B (non di ruolo), che però non è più giustificabile in base al merito (i concorsi si vincono con la raccomandazione). I professori non di ruolo, dal punto di vista del servizio da loro prestato verso gli alunni, si comportano (e lo stato chiede loro di comportarsi) come se fossero di ruolo. Nessuno sconto sul piano lavorativo rispetto a quelli di ruolo. Anzi, la precarietà del loro status lavorativo li rende spesso più solleciti e impegnati rispetto a quelli di ruolo. I professori non di ruolo ormai insegnano tutto l’anno e tutti gli anni come quelli di ruolo, ma con il ‘fastidio’ di dover, ogni anno, racimolare, anche in due o tre scuole diverse e lontane, le ore per raggiungere la ‘cattedra piena’ o, quanto meno, il corrispondente punteggio per le graduatorie. Lo stato, però, si ricorda, a suo favore, della loro ‘diversità’ quando deve pagarli: niente stipendio per i mesi estivi fra chiusura e inizio dell’anno scolastico, nessuna anzianità di servizio (lo stipendio è sempre quello di prima nomina, anche quando si hanno quindici anni d’insegnamento fuori ruolo), trattamento pensionistico conseguente, con un bel risparmio complessivo. Lo stato, così, ‘punisce’ la loro ‘diversità’, ma anche il cittadino, che non ha nessuna colpa: cosciente di disporre di risorse di livello qualitativo differente (secondo la sua logica discriminatoria), le utilizza tuttavia indiscriminatamente per offrire servizi di qualità ‘ufficialmente ritenuta diversa’ al cittadino che, però, paga le stesse tasse scolastiche, indifferenziate, cioè senza tenere conto di avere per i propri figli ora un professore DOC e ora uno non DOC.

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