La Grande Guerra delle donne italiane
Nonostante il centenario sia ormai passato, non scema assolutamente l’attenzione per il conflitto d’eccellenza che ha segnato profondamente la Storia di popoli e paesi nel XX secolo: la Prima Guerra Mondiale o Grande Guerra. Una guerra, grande appunto, fatta di uomini, armamentari, animali, trincee, malattie, morte, precarietà e donne… Sì donne che hanno combattuto per il proprio sangue e quello dei loro cari, con coraggio e forza. Donne anonime eppur eroiche nell’azione al pari del migliore dei soldati. Donne, quelle della Prima Guerra Mondiale, che sono l’eccezione che non conferma regola alcuna e che rimandano alle ancor più virtuose “amazzoni” in tutti gli schieramenti della successiva Seconda Guerra Mondiale. Quel valore temerario che Karl von Clausewitz definiva “la prima qualità dell’uomo in guerra”. E dunque anche della donna. Così Controluce ha voluto ospitare sulle pagine del proprio sito d’informazione Alberto Sardini, appassionato storico locale nonché estimatore di livello superiore della Grande Guerra, di ritorno da uno dei suoi viaggi nei luoghi del conflitto.
Sardini, in una manciata di parole, come definirebbe la Grande Guerra?
Rispondo con una manciata di numeri. La grande carneficina umana: circa 65 milioni di uomini mobilitati; circa 9 milioni di soldati morti; circa 6 milioni di mutilati; circa 7 milioni di prigionieri e dispersi; circa 21 milioni di feriti… Altro da dire?
Quale la sua eredità?
Il cambiamento geopolitico. Il 18 gennaio 1919, 32 stati decisero il futuro delle nazioni e la fine dei grandi imperi: tedesco, austro-ungarico, russo, ottomano, più le colonie e i confini. Nacque una Lega o Società delle Nazioni dove i membri si impegnarono solennemente a non fare più alcuna guerra. A Versailles, il 28 giugno del 1919 si firmarono i 14 punti di Wilson (presidente degli Stati Uniti) che certo non risolsero i problemi che causarono lo scoppio del conflitto e creando i prodromi della 2° Guerra Mondiale. Per non parlare della mancanza di quella che dovrebbe essere definita la giustizia…
Passiamo a parlare delle donne italiane della Prima Guerra Mondiale? Chi erano e cosa volevano?
Prima della Guerra gli uomini lavoravano i campi o nelle fabbriche. Allo scoppio del conflitto, padri, mariti, figli, fratelli, datori di lavoro, tutti partirono per il fronte, lasciando le donne a mutare il proprio ruolo sociale. Non più e soltanto madri, mogli e preservatrici del focolare ma e anche operaie, contadine, crocerossine, etc. Famose, ad esempio, le figure delle Portatrici Carniche, autentiche icone della storia italiana. Una straordinaria vicenda, la loro, che si colloca nella storia della Grande Guerra come evento a dir poco unico. L’età di questo Corpo Ausiliare tutto al femminile, oscillava tra i 15 ed i 60 anni. Il loro segno di riconoscimento era “la gerla”, ovvero una cesta di fasce lignee e di forma conica che – posizionata sulle spalle – serviva (in prima battuta) al trasporto di granoturco, patate, fieno e altri generi alimentari e successivamente all’entrata in guerra, al rifornimento di granate, cartucce, viveri, vestiti, etc, con un peso variabile dai trenta chili in su. Queste erano munite di un libretto personale sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi e spostamenti, il materiale trasportato e di un bracciale rosso con su stampigliato lo stesso numero del libretto citato e l’indicazione dell’unità militare di appartenenza. Le portatrici dovevano presentarsi, quotidianamente, all’alba presso i depositi e magazzini dislocati a fondo valle, su un’estensione di circa 6 km. In caso di emergenza potevano essere chiamate ad ogni ora del giorno e della notte. Il compenso mensile di ciascun spostamento era pari a 1,50 centesimi. Giunte a destinazione, con indicibile sforzo, rischi ed avverse condizioni meteo (si pensi alle abbondanti nevicate invernali), scaricavano il materiale, ritiravano la biancheria, sostavano qualche minuto per riposare e comunicare gli aggiornamenti agli Alpini di reclutamento locale. Riprendevano, poi, il cammino del ritorno a casa, dai famigliari ed al governo della quotidianità. L’indomani, all’alba, di nuovo si ripartiva… Questo per ben 26 mesi. Ricordo la figura di Maria Plozner Mentil, madre di 4 figli, nata nel 1884 a Timau e colpita a morte, a 32 anni, per mano di un cecchino austriaco il 15 febbraio del 1916 a Paluzza. Venne sepolta nel tempio ossario di Timau, accanto a quelle dei 1764 soldati del grande conflitto.
E di altre figure femminili?
Nel Sacrario più grande d’Italia, Redipuglia che accoglie le spoglie di 100.187 soldati (39,857 noti e 60.330 ignoti), vi è sepolta un’unica donna. Al centro del primo gradone con una lapide più grande delle altre, riposa la Crocerossina Margherita Kaiser Parodi, nata a Roma il 16 maggio 1897 e morta a 21 anni il 1° dicembre 1918. Era alle dipendenze della Terza Armata comandata dal Duca D’Aosta, presso l’Ospedale di Cividade del Friuli. Il 16 maggio venne coinvolta in un pesante bombardamento, senza interrompere minimamente il suo operato. L’Esercito le conferì la Medaglia di Bronzo al valore militare. Affrontò con estremo ardimento e devozione assistenziale, verso la fine del conflitto, anche la tremenda epidemia di influenza detta “Spagnola” che disseminò 50 milioni di morti in tutti i continenti. Ma il freddo, la fatica, le incessanti veglie notturne, fiaccarono il fisico della donna tanto da portarla alla morte nell’Ospedale di Trieste. Si scolpirono a memoria della coraggiosa crocerossina le seguenti parole: “A noi, tra le bende, fosti di carità l’ancella; morte tra noi ti colse, resta con noi, Sorella”. Ma ancora ricordiamo la figura della maestra calabrese Luigia Ciappi (nella foto), classe 1894, di Rosarno. A 21 anni, nel 1915, tentò di arruolarsi nel combattere contro gli austriaci. Prese una licenza dal suo lavoro. Insegnava a Firenze. Qui poté procurarsi una divisa grigioverde da fante, dichiarando che serviva a suo fratello. Si unì al 127° Reggimento. Riuscì a non farsi riconoscere e si equipaggiò di divisa, zaino, fucile, cartucciera e una coperta. Scoperta la sua vera identità su un treno per Bologna, tornò in Toscana dove al suo arrivo fu omaggiata per il suo straordinario coraggio. Tanto era stato forte il suo istinto patriottico che non esitò a tagliare la sua preziosa capigliatura fluente. La sua figura ispirò la scrittrice Carolina Invernizio nel romanzo “La fidanzata del bersagliere”. Ed ancora Clelia Calvi Pizzigoni, che diede alla Patria, facendoli arruolare nel corpo degli Alpini, la vita dei suoi 4 figli: Attilio, Santino, Nino e Giannino. Con fierezza, questa donna della provincia di Bergamo, porterà appuntate sul petto le 11 medaglie al valor militare dei suoi cari sino alla morte. Ma non si può, a conclusione, non parlare della mamma di tutte le mamme che scelse, nello strazio assoluto, la salma del Milite Ignoto. Lei era Maria Bergamas, madre dell’Irredentista Antonio Bergamas morto nel 1916 ed i cui resti non furono mai trovati. Erano originari di Gradisca d’Isonzo (all’epoca facente parte dell’Impero austro-ungarico). Antonio disertò dall’esercito austriaco per arruolarsi volontario nelle truppe italiane. Nella Basilica di Aquileia (Friuli Venezia Giulia), il 28 ottobre 1921, furono esposte 11 bare (le 11 battaglie dell’Isonzo e Carso) di soldati privi di identità. Maria si accasciò davanti alla bara che venne poi scelta ed inumata all’Altare della Patria di Roma e dedicata per l’eternità al Milite Ignoto per eccellenza. La Bergamas fu sepolta nel 1954 nel cimitero degli Eroi di Aquileia accanto alle salme degli altri 10 Militi Ignoti. Questo cimitero è un sito storico di estrema importanza perché è l’unico ad avere mantenuto la sua forma originale da quando iniziarono le sepolture nel 1915. Ed è proprio da qui che partì per il suo ultimo viaggio la salma del Milite Ignoto. Alle ore 8.00 a.m. del 29 ottobre 1921, dalla stazione ferroviaria di Aquileia. Il 4 novembre la bara arrivò a Roma, attraversando ben 5 regioni italiane. Nelle 120 stazioni incontrate lungo il percorso, centinaia di migliaia di persone resero omaggio al corpo senza nome. Il resto è storia…
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