“La gelsominaia” di Lina Furfaro, a grande richiesta nuova edizione
“La gelsominaia” di Lina Furfaro, a grande richiesta nuova edizione L. Pellegrini Editore – Recensione dello scrittore Carlo Santucci
Nell’apprendere che tra i mestieri spariti o comunque dimenticati esisteva quello di gelsominaia, sono rimasto sorpreso (e me ne biasimo). Mi sono quindi apprestato a leggere con attenzione il libro di Lina, che di ciò appunto tratta.
Immersi in un piccolo e anonimo universo, risalente a pochi anni fa, si possono cogliere gli aspetti più peculiari dell’arte della raccoglitrice di gelsomini. Il fatto che colpisce immediatamente è che gli addetti, o meglio le addette ai lavori (parliamo di donne e spesso di bambine o poco più) siano persone estremamente umili, costrette a eroici stenti per combattere la povertà, senza poterla sconfiggere ma riuscendo solo a sbarcare il lunario. Si è quasi tentati di paragonare un mestiere così estremo ad altri, i più disparati, tramandati dalla storia o dalla fantasia: la Piccola Fiammiferaia di Andersen potrebbe rappresentarne un fantasioso emblema.
Votate a una fatica assolutamente improba, i distintivi caratteristici di queste donne, specialmente giovani, intente a spiluccare e raccogliere petali di gelsomino, appaiono subito con evidenza: la docilità e la silenziosa rassegnazione. Dai loro sentimenti non sembrano affiorare rancori o invidie verso il bel mondo, neanche laddove questo usufruisca della loro miriade di gocce di sudore a vantaggio della produzione di qualche goccia delle profumate essenze mondane.
Un percorso di affanni, sacrifici e gretta economia, dove, ahimè, è giocoforza che la frequentazione della scuola o il gioco rivestano un carattere secondario rispetto a uno dei mestieri poveri riferiti alla peculiarità di un ridente angolo della Magna Grecia, la Locride. Ore di lavoro al buio per raccogliere e raccogliere, dove un chilogrammo di petali di gelsomino equivale a un compenso pecuniario assurdo, impari.
Eccole là, le gelsominaie chine a raccogliere nottetempo i petali in un’atmosfera talvolta gioiosa, dove prevale, oltre al sudore, un’amena complicità fatta di battute, di canzoncine e comunque di condivisione, che talora sfocia in allegria, cancellando di colpo tutti gli affanni e gli inconfessati rimpianti.
Mena, la giovanissima protagonista, è una delle braccianti che debbono scendere dal letto a notte fonda per avventurarsi, al buio, a raccogliere i fiori di gelsomino. Lei e le sue remissive colleghe, faticando e spiluccando nei loro solchi, non si ribellano, ma nel loro stretto dialetto si raccontano.
Una delle sporadiche “insurrezioni sindacali” le porta soltanto alla conquista di un paio di stivali che evitino ai piedi di restare nudi negli acquitrini per ore ed ore, evitando risentimenti e malattie.
Mena però continua ad affrontare ogni difficoltà e non rimpiange di aver dedicato troppo poco tempo alle bambole o alla scuola con le compagne, affrontando oltretutto orari meno disumani…
Purtroppo, ironia della sorte, dovrà arrendersi alle spietate leggi di mercato, che non guardano in faccia nessuno. Costringeranno il suo datore di lavoro, don Arturi, a chiudere l’azienda, sopprimendo di fatto il mestiere di gelsominaia.
Un finale molto crudo e diverso da quello delle fiabe a lieto fine… in cui, ad esempio, la piccola fiammiferaia è premiata dalla nonna che si materializza… e la porta in cielo.
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