La fragile base che sostiene la nostra tranquillità
Potremmo orientare in senso positivo la qualità del prodotto?
Come tutti sappiamo, il numero di spettatori di una trasmissione televisiva contribuisce a formare l’audience mediante un sistema statistico imparziale per conoscere l’ascolto. La misurazione degli ascolti è un elemento fondamentale per la pianificazione dei programmi e degli spazi pubblicitari ad essi associati (pagati dai consumatori dei prodotti), risorsa di cui la Tv vive.
Se, fra conoscenti, si discute dei programmi televisivi, si deduce che nessuno rinuncia a vedere una trasmissione di tipo culturale e tutti rifuggono da quelle, invece, che comunicano sensazioni basate su disvalori.
Ma perché, allora, proliferano sempre più le trasmissioni dove si ‘cavalca’ la pancia degli ascoltatori proponendo personaggi – veri e propri ‘mandanti’ delle violenze fisiche generate – che usano il gossip o la violenza verbale o l’istigazione alla guerra fra poveri? Perché, quando ci troviamo da soli in casa – dove nessuno ci può vedere e giudicare – non evitiamo di alimentare la nostra curiosità morbosa disertando questi programmi ‘spazzatura’? Abbiamo un grande potere nelle nostre mani e non lo usiamo! Infatti, visto che la presenza di tali personaggi è imposta da coloro che decidono i palinsesti in quanto ottengono un ritorno economico maggiore dovuto ai maggiori ascolti del pubblico, decretando il flop di ascolti di questi programmi potremmo orientare in senso positivo la qualità del prodotto di ritorno. Invece, tra altro, contribuiamo al dilagante fenomeno dell’antipolitica, un meccanismo di ‘auto-decadenza culturale’ che serve solamente a fornire a se stessi le false giustificazioni alle mancate realizzazioni sociali, che serve solo a ‘sporcare’ intellettualmente un’attività indispensabile in ogni luogo dove esiste il bisogno di convivere serenamente e nel benessere: l’attività di amministratore della cosa pubblica.
Occorre dire anche che gli esponenti politici fanno ben poco per rovesciare questo orientamento, anzi alcuni di loro nutrono le sopraddette giustificazioni per aumentare il consenso elettorale, perdendo però l’onestà politica di essere degni dell’incarico che è stato loro conferito e di agire senza discriminazioni quando si dispensa benessere, ma di agire con discriminazione quando si deve colpire un’irregolarità da chiunque commessa.
Occorre eliminare le convulsioni di violenza
Come si può, mi chiedo, avere un così orrendo senso della gestione della cosa pubblica? Perché i politici commettono irregolarità senza avere il timore di essere colpiti, non dico neanche dalla giustizia penale, ma dal giudizio degli elettori? Credo che la risposta sia da ricercare proprio in quello che la piattaforma residua degli elettori chiede agli amministratori. Non voglio generalizzare, ma sempre più pesantemente i votanti rivolgono le preferenze non ai potenziali amministratori sorretti da una politica ‘etica’, bensì a coloro (sostenuti anche da cordate di malaffare) che potranno, una volta eletti, accogliere le loro richieste (prevalentemente personali) a guisa di ‘favore’, scavalcando così le necessità degli altri e divenendo una sorta di ‘cittadini privilegiati’, appagando il loro ‘bisogno di prevalenza’ che è quasi associato al loro stesso ‘bisogno di vivere’.
Noi elettori dovremmo capire che questa altro non è che una sorta di ‘scorciatoia’ che non serve a risolvere il problema, ma lo amplifica. Dovremmo capire che le nostre decisioni etiche, a medio termine, potrebbero concretamente riversare benessere sociale generalizzato su di noi.
Ma come si può pensare di usare i privilegi senza aggiungere invidie e rancori? Non riusciamo a capire che un siffatto sviluppo delle cose produce una variante sempre aggiornata dello ‘scontro fra gruppi’ che, come un’ombra tribale, ha sempre caratterizzato e accompagnato la storia dell’uomo e che riaffiora continuamente, alimentando odio e violenza intellettuale? Ed ecco che gli opposti schieramenti diventano litigiosi, perdono di vista l’obiettivo principale che risiede nel fare bene il mestiere di amministratore e puntano quasi esclusivamente a diminuire la base elettorale dell’avversario, distruggendolo personalmente e politicamente, invece di ampliare i favori del proprio elettorato realizzando innovazioni (magari insieme agli avversari politici laddove gli obiettivi sono comuni, e troppi ce ne sono).
Questa forte contrapposizione fra gli schieramenti conduce, inequivocabilmente, a perdere di vista l’obiettivo primario e a indurre una parte dell’elettorato, che si sente confinata ai margini della cosa pubblica, a disertare qualsiasi tipo di partecipazione. E ancora, fatto gravissimo, si colpisce a morte l’idea stessa della democrazia.
Un’inversione di tendenza che porti all’eliminazione delle convulsioni di violenza sembra impossibile, e chi si azzarda a ipotizzare un cambiamento dell’atteggiamento dell’uomo viene tacciato di voler perseguire un’utopia irraggiungibile.
Utopia e realismo
Vorrei, a questo punto, citare una frase di Michail Bakunin che disse: «L’Utopia non è l’irrealizzabile ma l’irrealizzato».
D’altro canto, anche Albert Camus, pur forte nelle sue posizioni iperrealiste, giunse a pronunciare la seguente frase: «Siate realisti, domandate l’impossibile». Egli, pur descrivendo, nei suoi scritti (vedi il romanzo Lo straniero) una vita in cui esiste solo ‘il presente’, dove passato e futuro non hanno senso e quindi non hanno senso neanche le speranze alle quali si aggrappano gli uomini, quando descrive la poesia, dichiara che il ‘momento poetico’ dell’uomo è un modo per credere che ci sia una risposta al nostro desiderio di impossibile. Peraltro, l’Arte e la Poesia, reali e durevoli riti di condivisione e purificazione collettiva, raffigurano una relazione assoluta che ci mette in comune e ci emancipa. Allora perché non proviamo a unire le due teorie? Perché non proviamo qualche volta a ‘volare’ pensando all’impossibile pur restando vincolati a un presente che ci consente di mettere in pratica una scena alla volta, in una sequenzialità che comunque, nel suo lento movimento, può tendere verso il desiderio utopico? Perché non costruiamo un modello di riferimento al quale mirare con questo meccanismo di ‘piccoli passi’ per modificare di conseguenza i desideri e ridurre le aberrazioni della mente?
L’umanità è assetata di contatti con l’altro e chiede di conoscere dall’altro il riflesso di sé e, appagata dall’accecante esperienza, traccia con quella luce il proprio schema di vita. È come un sale che riconsegnato alla propria singolarità la fertilizza, in un processo incessante in cui vita e morte, unità fisse e immobili di un tempo primordiale, coesistono nel divenire. Ma i modelli che sinora la società occidentale ha proposto si basano su un uomo che si identifica non in ciò che è ma in ciò che ha. E mentre si affanna nel tentativo di accumulare sempre di più, riesce appena a percepire (per poi dimenticare subito dopo) le sofferenze della gran parte dell’Umanità che vive dall’altra parte di una sorta di schermo trasparente, e pensa che tale schermo possa essere sufficiente a proteggerlo dalle pressioni di coloro che vorrebbero attraversarlo per entrare da protagonisti nella scena della commedia umana.
Le tragedie provocate dall’odio e dalla violenza ci fanno scoprire tutta la nostra vulnerabilità; ci fanno capire quanto sia fragile la base che sostiene la nostra tranquillità e quanto sia sempre più necessario tentare di cambiare. Ora ci accorgiamo che il mondo che ci ospita è fragile, disintegrato, in preda a una costante tensione, fisica e spirituale, che le persone che lo abitano sono diffidenti, lontane, indifferenti o addirittura opportuniste, come coloro che, sgomitando fra le grida di disperazione, cercano di sfruttare tali eventi ai fini di consenso elettorale.
Ma esiste una moltitudine che, lontano dai riflettori dei mass media, pensa che la vita e l’Umanità rappresentino un bene molto prezioso e tenta quotidianamente di cambiare le cose. È nostro dovere rendere visibile questa realtà.
Risolvere i nostri problemi implica modificare profondamente la relazione con noi stessi e con tutto il nostro passato.
Alejandro Jodorowsky
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