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La fissione nucleare compie 70 anni – 29

La fissione nucleare compie 70 anni – 29
Luglio 11
15:23 2010

Richard RhodesÈ tutta colpa delle xenon-135

Il banchetto per i 60 anni del reattore B di Hanford. Il 9 ottobre 2004 si è celebrato il 60esimo anniversario dello start-up del reattore B di Hanford. Per commemorare l’evento è stato invitato Richard Rhodes, lo storico del Progetto Manhattan, vincitore del Premio Pulitzer per il volume The Making of the Atomic Bomb (“La invenzione della bomba atomica”). Ecco alcuni stralci del suo intervento intitolato Hanford and History (“Hanford e la storia”) in occasione del banchetto di festeggiamento.

Le parole di Richard Rhodes. Molti di voi conoscono bene la storia dei Laboratori Nazionali di Ingegneria Nucleare del sito di Hanford, alcuni di voi hanno addirittura vissuto questa esperienza in prima persona. Io, più modestamente, la conosco come fatto storico. Ho svolto ricerche su questi eventi attingendo quasi sempre a fonti secondarie per poterne scrivere, purtroppo soltanto brevemente, nel mio libro. Mi sarebbe piaciuto scriverne più a lungo, ma semplicemente non avevo più spazio, nelle pagine finali di un libro che copriva già 1000 pagine. Ho finito quindi per trattare il plutonio come un argomento a se stante, separato dal resto della vicenda del Progetto Manhattan, contribuendo senza rendermene conto al mito che la bomba atomica sia stato costruita attraverso il lavoro di una 30ina di fisici, riuniti a Los Alamos. Più recentemente, ho esaminato una enorme quantità di documenti di fonte primaria per rinfrescare la mia memoria sul lavoro eroico che è stato compiuto in questo sito del Progetto, tra il 1943 e il 1945, vale a dire tra la fine dello esperimento di Chicago Pile-1 e il Trinity Test di Alamogordo. Credo di essere oggi in condizione di narrare con più accuratezza queste vicende e di scoprire uno o due misteri relativi ad esse.

La staffetta Chicago-Hanford.
Gli scienziati del Laboratorio Metallurgico della Università di Chicago avevano determinato i parametri critici del reattore e, in un certo modo, le caratteristiche del sito dove si sarebbe prodotto il plutonio necessario per costruire la bomba. Un certo colonnello Franklin T. Matthias, appartenente al Corpo degli Ingegneri dell’Esercito, conosciuto dagli amici intimi come Fritz ha scritto nel suo diario alcuni appunti dopo un incontro tenuto presso gli uffici della Du Pont, nella sede centrale della società a Wilmington, nello stato del Delawere, il giorno 14 dicembre 1942, soltanto due settimane dopo la vicenda di Stagg Field a Chicago e con una sola settimana di anticipo sulla stesura del contratto tra Du Pont e l’esercito USA. Ecco alcuni frammenti degli appunti di Fritz: il sito deve necessariamente essere spazioso abbastanza da contenere un’area produttiva di circa 12 x 16 miglia, senza alcuna autostrada oppure ferrovia più vicina di 10 miglia, nessun agglomerato urbano di più di 1000 persone più vicino di 20 miglia, una sorgente di acqua di almeno 25mila galloni per minuto e un erogatore di elettricità di almeno 100mila kilowatt. Matthias aveva preso in considerazione l’area della Grand Coclee nello stato di Washington, e parecchi siti nello stato del Tennessee, prima di decidersi a sorvolare l’area di Hanford con un aereo ricognitore dell’esercito. Molti anni più tardi, Matthias ricordava ancora queste considerazioni di massima: riferii tutto quello che avevo vista al mio capo, il generale Lesile R. Groves, il quale si disse d’accordo con le mie proposte. Il corpo degli ingegneri dell’esercito cominciò a prendere possesso del sito di Hanford nel gennaio 1943.

Il primo problema tecnico da risolvere era il sistema di raffreddamento. La grande questione iniziale riguardava il sistema di raffreddamento per i reattori di produzione del plutonio. La grafite serviva da moderatore per i neutroni, l’uranio metallico costituiva il combustibile. Le reazioni a catena avrebbero rilasciato decine quando non centinaia di migliaia di kilowatt di potenza: dato che i reattori erano stati progettati per produrre plutonio, l’energia creata sotto forma di calore non avrebbe prodotto vapore per generare elettricità ma doveva in qualche modo essere dissipata trasferendola altrove. L’elio, che non assorbiva assolutamente neutroni, fu il refrigerante di prima scelta ma il fisico teorico ungherese Eugene Wigner, diventato un esperto ingegnere esperto in fisica e calcolo dei reattori, puntò con decisione sull’acqua perché quest’ultima, malgrado alcune sue propensioni ad assorbire una frazione dei neutroni, si mostrava più semplice e più malleabile a fini ingegneristici. Wigner giudicò che la perdita di reattività causata dall’acqua sarebbe stata compensata nei grandi reattori di produzione scegliendo materiali a più alto grado di purezza. Questo grande fisico era convinto che la Germania nazista fosse avanti agli USA nello sviluppo della bomba e trasferì persino la sua famiglia lontana da Chicago nel Dicembre 1943, quando, nella sua stima valutativa, la partenza anticipata della Germania doveva avere già prodotto la bomba – che, egli pensava, i tedeschi avrebbero logicamente sganciato sul Laboratorio Metallurgico. Alla fine di una lunga campagna di decisioni, Enrico Fermi, Il generale Groves e il capo della Du Pont Crawford Greenewalt optarono per la scelta dell’acqua come refrigerante: essa sarebbe stata prelevata dal Columbia River e incanalata nei reattori, in un regime a circuito chiuso. Secondo gli ordini ricevuti, Eugene Wigner costruì un elegante modello di reattore con griglie quadrate ma riempite di combustibile soltanto nella parte circolare centrale.

La comparsa del primo mistero. Il reattore B, il cui anniversario stiamo celebrando durante questo week-end è stato il primo ad andare critico, nella tarda sera del 26 settembre 1944. L’indomani mattina, alle prime ore dell’alba, la potenza era stata innalzata a 9 megawatt e mantenuta a quel livello. Quindi, tra la sorpresa e la costernazione di tutti, la reattività cominciò a decrescere lentamente, ad un tasso di riduzione che avrebbe condotto il reattore a diventare sottocritico verso le 6 del pomeriggio. Per rallentare ogni possibile perdita di acqua, venne ridotta la pressione con un conseguente calo della potenza a 200 kilowatt. Tuttavia, la reattività continuava a diminuire: gli operatori decisero di spegnere il reattore e andare in cerca di perdite idrauliche. Quando Crawford Greenewalt ritornò con Fermi il mattino seguente, il 28 settembre, egli scrisse di avere trovato la pila si era spenta secondo le previsioni, ma aveva misteriosamente ripreso a funzionare a partire dalle ora 1 della notte. Da quel momento in poi, la reattività aveva ricominciato a crescere stabilmente. Greenewalt continua nei suoi appunti: nondimeno gli operatori dell’impianto avevano inutilmente cercato di individuare perdite; a quel punto erano arrivati alla conclusione che qualcosa stava avvelenando la reazione e, la sera stessa, per verificare il sospetto avevano appositamente elevato la potenza fino a 9 MW. Ancora Greenewalt appuntava nel suo diario privato: e il fenomeno già osservato in precedenza si replicò quasi esattamente nella stessa maniera. La reattività cominciò a decrescere e la potenza scese fino li livello di 0.2 MW. (Richard Rhodes, Hanford and History, Address on the occasion of the 60th Anniversary of Hanford B reactor, October 9, 1944)

Fermi e Wheeler risolvono il mistero dell’avvelenamento. Il fisico teorico di Princeton John A. Wheeler era stato nominato consulente di Crawford Greenewalt per la fisica della pila dall’ingresso della Du Pont nel progetto. In quei giorni si trovava a Hanford e seguì da vicino i fenomeni di discesa e risalita della reattività del reattore B. Aveva scritto in precedenza: Ero preoccupato da mesi per l’eventuale avvelenamento indotto dai prodotti di fissione. Di fronte a quanto avvenuto, costui propose un meccanismo composito: Un prodotto di fissione madre, non assorbitore di neutroni, con una vita media di alcune ore decade in una figlia vorace di neutroni. Questo veleno, a sua volta, decade con una vita media di alcune ore in una terza specie nucleare, non assorbitrice di neutroni e magari anche stabile. La sequenza sarebbe stata così congegnata:
(i) la pila avrebbe fabbricato il prodotto madre; (ii) il prodotto madre sarebbe decaduto nel prodotto figlia; (iii) mentre il prodotto figlia aumentava di volume assorbendo neutroni, la potenza della pila sarebbe calata; (iv) una volta presente un quantitativo sufficiente di prodotto figlia, sarebbero stati assorbiti abbastanza neutroni da fare morire di inedia la reazione a catena e fermare l’erogazione di potenza da parte della pila; (v) poi il prodotto figlia sarebbe decaduto in un terzo elemento non assorbitore e la pila avrebbe cominciato a risvegliarsi; (vi) alla fine sarebbe rimasto così poco prodotto figlia per inibire la reazione e la pila sarebbe tornata critica alla potenza nominale.
Fermi era andato a dormire. Wheeler rimase di guardia, calcolando le vite medie più probabili in base alle fasi di turgore e di abbattimento della pila. Alla mattina si era convinto di avere bisogno di due vite medie di radioattività di circa 15 ore in totale. La madre doveva essere I-136 da 6,68 ore e la figlia doveva essere Xe-135 da 9,13 ore, per un totale di 15,81 ore. Dopo un’ora arrivò Fermi, tre ore più tardi erano evidenti altre due conclusioni: (a) la sezione d’urto di assorbimento dei neutroni termici per lo Xe-135 era 150 volte maggiore di quella del più forte assorbitore conosciuto fino ad allora, il Cd-113; (b) Quasi tutti i nuclei di Xe-135 formati in un reattore a flusso elevato avrebbero tolto dalla circolazione un neutrone a testa. Lo xenon diventava così una barra di controllo virtuale, inattesa e indesiderata. Per neutralizzare questo veleno, esisteva l’esigenza di fare partire il reattore con un eccesso di reattività iniziale, vale a dire con un maggior numero di elementi di combustibile. (Richard Rhodes, The Making of the Atomic Bomb, Touchstone 1986)

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