La festa di sant’Antonio Abate a Monte Compatri
La festa di sant’Antonio Abate a Monte Compatri
di Armando Guidoni
Pubblicato nel “Lunario Romano” del 1998 – Le feste religiose nel Lazio
(Le foto sono state scattate prima del 1998)
Premessa
Quando, oggi, si dice “feste popolari” siamo subito indotti a pensare a quelle manifestazioni organizzate a fini esclusivamente turistici, e mirate all’attrazione di folle sempre più numerose di visitatori, con lo scopo di ricavarne un beneficio (economico e di immagine) per la comunità promotrice. Troppo spesso ci dimentichiamo che esse traggono origine dalla “cultura dei popoli”. L’arte popolare trovava proprio in queste feste, nella loro preparazione e nella loro fruizione, la possibilità di esprimersi attraverso la musica, la poesia, la danza, la pittura, i costumi e la coreografia. E l’occasione non era certamente stimolata da un puro interesse mercificatorio, ma dalla voglia di rievocare un evento storico, o un rito, una credenza religiosa, una superstizione, la celebrazione di un ciclo naturale della vita o delle stagioni, una manifestazione di solidarietà, eccetera.
In sostanza, in queste occasioni venivano celebrati i valori che il popolo aveva individuato come elementi di positività. In tal modo tali valori venivano tramandati alle generazioni successive. Ciò significa che le feste popolari erano proposte non “per prendere”, ma “per dare”.
In Italia non c’è paese o città, ancor’oggi, che non celebri la sua festa popolare. Anche la comunità di Monte Compatri ogni anno “snocciola” le sue brave feste. La più importante è sicuramente quella del Santo Patrono del paese, san Giuseppe, ma non meno sentita è la festa di sant’Antonio Abate. È di quest’ultima che cercherò di cogliere gli aspetti più significativi per una sua breve descrizione.
Cenni biografici del Santo
Antonio nacque nel 251 dopo Cristo a Qeman, un villaggio del medio Egitto, e morì all’età di 106 anni. La sua vita fu narrata dal vescovo di Alessandria d’Egitto s. Atanasio, suo contemporaneo. Come dice Atanasio, i genitori di Antonio possedevano “trecento arme buonissime e piene di raccolto”. Ciò rappresentava più di cento ettari, quanto bastava per rendere una famiglia molto benestante ed importante proprietaria terriera. In quegli anni (da due secoli e mezzo i Romani avevano abbattuto la dinastia dei Tolomei) il Cristianesimo in Egitto aveva consolidato robuste radici, tantoché il Patriarca di Alessandria era, dopo il Papa, al secondo posto nella gerarchia della Chiesa universale. Ciò era giustificato anche dall’importanza che quei luoghi avevano poco prima rivestito nella storia della Sacra Famiglia. Quel popolo aveva, non dimentichiamolo, protetto Maria, Giuseppe e Gesù dalla violenza di re Erode. Le fontane, le strade, ogni cosa “parlava” di loro: “Il bastone di Giuseppe iniziò a germogliare subito dopo essere stato infilato nella sabbia”. “Gli alberi si piegarono per offrire frutti e ombra alla Sacra Famiglia”. “Le statue degli idoli crollarono”.
Ma proprio in quegli anni, per la prima volta, questa comunità si trovò nel mezzo di una crudele persecuzione alimentata dal romano Decio, nonché nel mezzo di un’epidemia di peste che decimò la popolazione. Forse furono proprio questi i motivi che spinsero i genitori di Antonio ad educarlo in casa. Egli, infatti, non frequentò la scuola, ma seguì gli insegnamenti cristiani dei genitori fino all’età di 18 anni, quando essi morirono.
Poco tempo durò la sua contraddizione interna di essere ricco ed, al tempo stesso, convinto assertore dei dettami evangelici : “Se vuoi essere perfetto, va, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, e poi vieni, seguimi, e avrai un tesoro nei cieli” (Vangelo di san Matteo, 19° cap.). Antonio vendette tutti i suoi beni e li donò ai poveri. Poi affidò la sorella, ancora piccola, ad una casa di “vergini fedeli”. Mondato della sua ricchezza e da ogni obbligo familiare, Antonio “coltivò l’ascesi fuori dalla sua casa, vivendo severamente”, come disse Atanasio, e si immerse, quasi immolandosi, dentro la perfezione evangelica, sostenendosi con i prodotti del proprio orticello e vendendo poveri manufatti artigianali.
Successivamente, Antonio, “atleta della vita solitaria nel deserto”, si sposterà altre tre volte. Dapprima in un luogo solitario “disseminato di tombe” dove visse fino all’età di trentacinque anni. Poi nelle rovine di un fortino situato a Pispir, nel deserto, dove rimase altri venti anni. Infine, alla ricerca di una nuova austerità, dopo un viaggio verso il centro del deserto, in direzione del Mar Rosso, si fermò in una piccola oasi da dove poteva vedere il sacro monte Sinai. Qui, un numero sempre crescente di visitatori lo convinse ad aprire il suo ritiro che ben presto si riempì, nei dintorni, di numerosi eremiti i quali elessero Antonio a proprio padre spirituale e maestro. E da qui continuò, fino alla sua morte, a combattere contro gli ariani e a compiere il maggior numero dei suoi “prodigi”.
Nell’agiografia antica la vita di Antonio ha segnato il punto di raccordo fra il martirio e il monachesimo, “sentieri” che hanno caratterizzato la vita materiale e spirituale del cristianesimo nei primi quattro secoli della sua storia. Il martire volle seguire l’esempio della passione di Cristo. Nello stesso modo in cui Cristo aveva trionfato nei confronti della morte e del diavolo anche il martire combatte e vince la stessa battaglia. Ebbene, nel monachesimo il martirio non viene espresso ed esaurito con un unico gesto di offerta a Cristo della propria vita, ma si ripete quotidianamente. Antonio, infatti, inizia la sua lotta, che durerà tutta la vita, contro il diavolo. Questa espressione del male lo tenterà in tutti i modi, anche con la violenza corporale, ma ne uscirà sempre sconfitta: “Il diavolo invidioso, che suole odiare il bene, non sopportò di vedere in un giovane questa maniera di vivere, e osò operare anche contro di lui come gli era consueto” (Atanasio).
La strada dell’ascetismo e dell’anacoretismo viene così fortemente segnata da Antonio, Padre del Monachesimo, e si estenderà, oltre l’Egitto, a tutto l’Oriente e poi all’Occidente, fino all’Irlanda.
Il culto del Santo
Il culto di s. Antonio, a causa dei “prodigi” da lui compiuti, iniziò già nel corso della sua vita. La diffusione che ebbe il libro biografico “La vita di Antonio” scritto in greco da Atanasio e subito tradotto in lingua latina fece poi ben presto diffondere il culto in tutto il mondo allora conosciuto.
Il Medio Evo tutto si è nutrito di questa figura, di questo “gigante” che stava lì a dimostrare quanto potesse essere grande l’amore dell’uomo per Cristo. Anche l’arte si è nutrita di Antonio. Pittori famosi ne hanno dipinto il suo dramma dei lunghi anni nei quali fu sottoposto alla violenza delle “tentazioni del demonio” sempre raffigurato in sembianze animalesche, tra le quali il porco con maggiore frequenza e sempre in primo piano. Ed è proprio dalla errata interpretazione che il popolo ha dato di tale iconografia che, probabilmente, deriva la credenza diffusa di Antonio “protettore degli animali”. Artisti come Grunewald, Bruegel, Gaddi, Teniers e Bosch hanno dipinto Antonio sempre con un aspetto senile: una lunga barba bianca, un saio, un bastone da eremita (a forma di Tau), la campanella e il porco, la fiaccola (o il fuoco).
All’inizio del 400 risale la prima celebrazione della sua festa che s. Eutimio, abate in Palestina, fece svolgere il 17 gennaio. Il popolo lo venerò anche perché a lui si rivolgeva per avere un aiuto contro le malattie gravi e contagiose quali la peste o l’herpes zoster (il “fuoco di s. Antonio”) che poco dopo l’anno mille colpì innumerevoli persone, specialmente in Francia, durante la traslazione delle reliquie di Antonio da Costantinopoli. Questa terribile “peste ardente” era come un “fuoco divoratore che invadeva le viscere e bruciava tutti i centri nervosi” provocando indicibili sofferenze, ed i fedeli malati si recavano numerosissimi in pellegrinaggio nella chiesa di Saint-Antoine de Viennois, dove erano conservate le sue reliquie, tanto che un gruppo di religiosi costruì un ospedale dove poter accoglierli e curarli. Nacque la Confraternita degli Antoniani che si diffuse nel mondo ad offrire servizio in luoghi di assistenza e dalla quale ebbe poi origine l’Ordine degli Antoniani.
La leggenda dice che nelle città, per motivi di igiene, fu indispensabile vietare la circolazione degli animali e che questo divieto non fu applicato ai maiali della confraternita, riconoscibili per mezzo di una campanella appesa al collo, che poterono così seguitare a vivere dei rifiuti dei cittadini. Veniva così fornita sussistenza ai pellegrini anche con i prodotti che derivavano dall’uccisione di questi animali. Anche da ciò si iniziò a dire che i maiali erano sotto la protezione di Antonio.
Il culto del Santo a Monte Compatri
Certamente, tutte le più importanti manifestazioni del popolo nella vita rurale sono pervase da una “religiosità piena”, rivolta ad ottenere la protezione divina per i rischi, i pericoli e la precarietà di una vita dura da essere vissuta.
Anche Monte Compatri, vista la vocazione agricolo-pastorale della popolazione, ha espresso, nel corso dei secoli, la sua devozione ad Antonio. Anche a Monte Compatri ci saranno state persone che traevano da un animale la principale fonte di sostentamento, basti pensare ai numerosi “carretti a vino” che fino a pochi decenni fa servirono per il trasporto del prezioso nettare a Roma. Tali persone avranno certamente immaginato con terrore una possibile malattia dell’animale o, peggio ancora, la sua morte. E cosa fare, in tali circostanze? Come evitare questa possibile e terribile disgrazia? Vista la povertà e l’ignoranza, non restava altro che rivolgersi al Santo il quale avrebbe potuto offrirgli “protezione” in cambio solo di “devozione”!
Notizie certe e documentate sul culto del Santo non ce ne sono, almeno fino alla fondazione del “Circolo di sant’Antonio” avvenuta nel 1893, per merito di Enrico Carli e Giovanni Felici, e a tutt’oggi ancora viva. Gli anziani del paese ricordano che la festa era molto attesa. I preparativi iniziavano molto tempo prima (addirittura prima di Natale). I promotori della festa erano ogni anno diversi. Il meccanismo era semplice. Con una specie di passaggio del testimone, alla fine della festa corrente venivano nominati un nuovo “presidente” ed un nuovo “festarolo” ed a loro venivano affidati, rispettivamente, la “bandiera del circolo” e il “quadro del Santo”, i “simboli” della manifestazione. A loro spettava il compito di raccogliere i fondi necessari alla festa attraverso le donazioni volontarie dei paesani e di organizzare e predisporre il carro allegorico che avrebbe partecipato alla processione.
Nelle più recenti edizioni, i festeggiamenti iniziano la sera del 17 alle ore 17, momento in cui i soci vanno a prendere la bandiera del circolo ed il quadro del Santo nelle case del presidente e del festarolo in carica e, tutti insieme, con la banda del paese in testa, accompagnano questi simboli fino alla chiesa di s. Maria dell’Assunta in cielo dove, nel terzo altare a destra, si trova la cappella di s. Antonio. Sopra l’altare viene conservato un olio con i santi Rocco, Antonio Abate e Sebastiano, con in alto un cherubino sorreggente due serti di rose ed una palma, il tutto nello sfondo di un paesaggio fantastico. La tela, che sino al 1930 si ritrovava nel primo altare a destra, è, secondo l’Artioli, un’opera di Carlo Possenti (1826-1882), pittore di Monteporzio formatosi nell’ambito dell’Accademia di S. Luca. Il tono accademico e classicheggiante della tela, che si ispira a modelli cinquecenteschi ferraresi, confermano questa ipotesi. Non è da escludere che la tela possa essere un rifacimento di un’opera originale del cinquecento.
Da questo altare viene poi celebrata una messa in memoria dei soci defunti del circolo. Alla fine della funzione i soci organizzano un “falò”. Come ricordato da alcuni paesani, vista la decentrazione territoriale del comune, nel passato il falò era acceso nella piazza davanti alla chiesa della frazione di Laghetto, ed in questa occasione la gente si riuniva attorno al “fuoco comune” e si scaldava mangiando pane e salsiccia e bevendo vino. Da alcuni anni, però, il falò è stato riportato nelle piazze del centro storico del paese.
La domenica immediatamente successiva al 17 gennaio si “fa la festa”. Viene annunciata alle otto in punto di mattina con “le bombe”, tre forti esplosioni dal punto abitato più alto, nel piazzale davanti al santuario di san Silvestro. Alle ore 10 c’è la messa solenne celebrata direttamente nella cappella del Santo. Dopo la messa si riprendono i simboli (la bandiera ed il quadro) e “con la musica si scende in piazza”, tutti in processione, fra due ali di folla festante, fino al vecchio mattatoio (il piazzale alla fine di viale Busnago). Qui sono già in attesa i carri allegorici che partecipano alla gara. Una giuria esprimerà poi il giudizio sul migliore carro che verrà premiato. Ma non solo i carri attendono di accodarsi alla processione, ci sono anche i paesani che hanno portato i loro animali; ed allora si mettono in movimento cavalli e cavalieri, asini, buoi, cani, uccelli portati nelle loro gabbiette ed, a volte, anche gli animali di qualche circo di passaggio nella zona, ippopotami, dromedari, elefanti, tigri e leoni (anche loro nelle apposite gabbie), e così via…
La lunga processione riguadagna così la “piazza dell’Angelo” dove il prete è già pronto per benedire tutti gli animali.
All’inizio del secolo la benedizione veniva data dal prete subito fuori il portone del Duomo. Gli animali, insieme all’unico carro allestito dal circolo (non c’era la gara dei carri allegorici), dopo aver sfilato nelle vie del paese, giungevano dalla vicina piazza Manfredo Fanti, gioiello di “Ghetto” (il quartiere arroccato intorno al Duomo). I cavalli, i muli e gli asini erano tutti freschi di “brusca e striglia” e avevano gli zoccoli lucidi di grasso, spalmato fino a pochi minuti prima della benedizione; portavano attorno al collo un fiocco rosso ed erano “vestiti” con i migliori accessori conservati tutto l’anno appesi alle pareti delle stalle. Gli animali dovevano essere belli! Quasi per poter dire al Santo: “Guarda che bell’animale che possiedo! Fa che possa essere altrettanto bello anche il prossimo anno!”.
Arduino, vecchio monticiano amato e stimato da tutti, ricorda che “i cavalieri portavano appoggiati sulle selle lunghissimi ceri accesi (forse torce)” quasi un simbolo allegorico per ricordare le virtù guaritorie di Antonio.
Alle ore 13 tutti a pranzo, i cittadini nelle proprie case, mentre i soci del circolo si riuniscono in uno dei tanti locali del paese per celebrare il “pranzo sociale”, ricco di piatti e vini locali. Nel pomeriggio, la manifestazione ha a volte assunto un aspetto non propriamente legato alle tradizioni. Balletti coreografici o sfilate in costume con sbandieratori o cori folcloristici sono serviti talvolta per l’intrattenimento della gente, per mantenere viva l’attenzione fino al momento in cui, sempre con la banda in testa, si portano “i simboli” alle case del nuovo presidente e del nuovo festarolo nominati per organizzare la festa l’anno successivo. Ed ancora rinfreschi con “sbicchierate, ciambelle e panini” da loro offerti .
Ed alla fine della festa, attesi da tutti, ecco i “fuochi artificiali”. Belli, rumorosi, vivi e ricchi di colori, hanno sempre la capacità di risvegliare il “bimbo” che è dentro ognuno di noi; ed è proprio seguendo “lui”, questa volta, che ci ritroviamo con lo sguardo rivolto su, in alto, nel cielo che si illumina di mille e mille bagliori colorati.
Bibliografia
– Vita di Antonio, a cura di Christine Mohrmann, A. Mondadori ed.
– Antonio l’egiziano, Queffelèc, Ediz. Paoline
– Oltre un secolo di storia, Circolo s. Antonio di Monte Compatri
– Il folklore, Tradizioni, vita e arti popolari, TCI
– S. Antonio nel XVI centenario della sua morte (356-1956), La Voce del Nilo
– S. Antonio Abate. Storia e leggenda, tradizioni e….., Donatangelo Lupinetti O.F.M., Lanciano coop ed.
– Enciclopedia Cattolica
– Biblioteca Apostolorum
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