La felicità altrui dà sempre fastidio
Mai come in questo caso il silenzio sarebbe veramente d’oro. Perché il dramma della Lanciotti, rappresentato la sera del 28 giugno a Monte Compatri nei locali di ‘Controluce’ dalla Compagnia Teatrale Apegrama, ci lascia ammutoliti e inermi. Perché non c’è più niente da dire, e le parole che spenderemo ancora sul “Come andarono i fatti”, suoneranno probabilmente come parole in libertà. Risulta perciò molto difficile anche liquidarlo con un ‘bravi gli attori’, ‘bravo il regista’ e ‘brava Maria’, volendo costringerci a parlare solo della prova teatrale. E tutto finirebbe qui. Ma troppi e tanti sono i pensieri e le immagini che tornano alla mente, troppe le ingiustizie mai sanate, troppe le ferite mai cicatrizzate che il conto, per forza di cose, non verrà mai saldato.
E qui non si tratta solo e soltanto del cosiddetto femminicidio, brutto neologismo che si attaglia più al mondo animale che al nostro, ma quello a cui abbiamo assistito quella sera è una critica a tutto tondo, ferma e assoluta al tipo, all’organizzazione di questa società che ci siamo dati e costruiti con le nostre stesse mani. O meglio, che ci hanno costretto ad ingoiare secolo dopo secolo, strato dopo strato, come certe torte nuziali. Gli omicidi mirati che si stanno susseguendo in questo orrido anno di grazia 2013 e che vedono sempre le donne vittime di una violenza che vorremmo confinata all’età della pietra, paiono solo la punta del classico iceberg. Il resto di questa montagna affonda, appunto, in una società bloccata in archetipi stratificati nel tempo, in consuetudini e pratiche indotte da istituzioni che per loro intima natura non vollero e non poterono fare altro che tentare in tutti i modi di limitare sul nascere ogni aspirazione alla felicità, al desiderio, allo ‘stato di grazia’ che ognuno di noi dovrebbe avere o coltivare. Per il semplice motivo che queste tre qualità messe insieme avrebbero potuto essere potenzialmente sovvertitrici di ogni ordinamento costituito. E proprio la felicità, degli altri, dà più fastidio. Questi sei personaggi meno uno (Sarina che è morta) non cercano la felicità: ricercano lo status quo. Smarriti nei loro dedali mentali, nei loro lambicchi psicotici, non potranno mai pensarsi come persone nuove: non hanno un’etica comune, condivisa, ma un’etica tutta privata, particolaristica, incentrata sul ‘qui e ora’, senza passato, e soprattutto, senza più futuro. Impaniati su sé stessi, in un inconcludente e claustrofobico gioco al massacro, vittime a loro volta di assenze importanti (culturali, genitoriali, affettive) e lasciati al proprio destino, brancolano in una nebbia fatta di ciance senza costrutto, di piccoli pensieri accartocciati, di recriminazioni che non portano da nessuna parte. Le tre beghine in pigiama d’altronde, che odorano di Sant’Uffizio lontano un miglio, ci riportano all’istituto della confessione, dell’ammissione, estorta o blandita, del farfugliare rancoroso, dell’origliare dietro le porte, del senso di colpa coltivato e favorito da una Chiesa che di questo ha fatto, nei secoli, il proprio punto di forza e di sopravvivenza. E forse sono proprio loro, all’apparenza innocue comparse, a rivelarsi come il vero specchio di questo cascame di società che Maria Lanciotti ha messo in scena. Tre donnette che hanno d’un sol colpo abiurato la ‘sorellanza’, frustrato l’assalto al cielo e buttato a mare tutte le pratiche del femminismo novecentesco. Stiratrici indefesse di pantaloni e canotte maschili e devote guardiane delle famiglie (altrui), al momento giusto non sanno impedire l’assassinio di un’altra donna. Italo è l’omicida accertato, ma sono loro le vere traditrici e le vere mandanti, perché ‘tra-mandano’ e perpetuano il potere del sultano attraverso i loro bisbigli e la loro sottomissione culturale all’ideologia del clan, dove è forte l’odore del sangue e dei legami, delle leggi fatte in casa. Ecco perché, più che sul ‘femminicidio’ in sé e per sé, il dramma sembra puntare il dito soprattutto contro l’altro pilastro, che sorregge tutta l’architrave: la famiglia. La famiglia come istituzione totale, come luogo di ‘mafiosità’ in fieri, dove violenza e coercizioni, ricatti, senso (malinteso) del rispetto e forzata fidelizzazione, riproducono rapporti di forza patologici come, e talvolta peggio, che in fabbrica. Del resto la dice lunga l’uso ingannatore che certi capetti fanno dell’espressione ‘siamo una grande famiglia’. Una famiglia che protegge i propri figli fino allo sprezzo del ridicolo (“è un bravo ragazzo” è l’incongrua litania che sentiamo dopo ogni stupro), che brucia le pensioni dei nonni per mantenerli, che li vorrebbe sempre vicini, al massimo a un isolato di distanza. L’apatica classe dirigente che ci ‘governa’ ci conosce a menadito, sa da dove veniamo e dove andremo, e così non si affanna più di tanto a trovare la men che minima soluzione. Lasciandoci soli, in attesa dei prossimi ‘fatti’. Ad interpretare il dramma teatrale Come andarono i fatti sono degli eccellenti attori: Antonella Fede (Sarina), Angelo Cavaterra (Italo), Marco Tredici (Silvio), Patrizia Arcioni (Maligna), Eleonora Fede (Pettegola) e Adele Germani (Bonaria) che per la pregevole regia di Roberto Pennacchini e la sensibilità dell’autrice Maria Lanciotti ci hanno fatto vivere una esperienza indimenticabile.
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