“La dama rossa uccide sette volte” di Emilio Miraglia
La dama rossa uccide sette volte (1972) di Emilio Miraglia è un film che non può accampare grandi pretese nella gloriosa cinematografia nostrana. Secondo una leggenda tenuta in fede da una famiglia aristocratica, due sorelle sono destinate ad emulare le loro antenate, la dama rossa e la dama nera, uccidendosi l’un l’altra e tornando dopo la morte a vendicarsi. Su questo sfondo si svolge la vicenda di un film i cui limiti si leggono nella penuria di quei tecnicismi che, sottilmente coniugati, fan parlare di magia del cinema: quest’arte fatta di molte arti, non ultimo lo sguardo denso e profondissimo della pittura.
Un limite de La dama rossa uccide sette volte è costituito dalla piattezza di campo, con l’elezione del piano unico come sguardo fotografico, che si priva della dialettica tra personaggi e ambienti e della conseguente imbastitura semantica. Ne risulta un taglio fumettistico che, nei casi migliori, ricorda un certo Chabrol dell’epoca nei primi piani, non foss’altro che il denominatore comune va ricercato in Hitchcock. Le molte zeppe degli snodi servono a far calare il vieto deus ex machina nello scioglimento della vicenda, che chiarisce in retrospettiva i moventi degli assassinî.
Sul versante interpretativo, preso l’alveo fumettistico se non proprio del fotoromanzo, gli attori sono scelti con buona perizia, per offrirsi come tipi umani imbalsamati in ‘maschere’ inespressive, con variante tra pena e sorrisetti. Ne è un esempio d’eccellenza Ugo Pagliai, il cui volto, nella parte di Martin Hoffmann (vicepresidente di un’azienda leader dell’abbigliamento), scongiura qualsiasi indulgenza ai tic e al vibrato mimico che sottopelle caratterizza gli attori che abbiano l’ambizione di rendersi famosi al secolo: al confronto, la glaciale e tenera Barbara Bouchet, nei panni della fotografa Kitty Wildenbrück, sembra addirittura sciorinare una teoria dei sentimenti profondi, benché nulla del passato e del vivo carattere di una donna possa dirsi incarnato dall’attrice. È così che il personaggio che emerge con maggior umanità è il funzionario di polizia, ottimamente interpretato da Marino Masé. Il che, per un ruolo comprimario, è notoriamente un controsenso.
Nonostante queste pecche, il film risulta godibile, poiché, a prescindere dalle zeppe, la sceneggiatura s’affastella in un finale intricato che ricorda certi crescendi dostoevskiani, anche se poi colei che ha il physique du rôle più consono a stringere il pugnale dell’impassibile carnefice si rivela l’assassina vera. La ritmica del film, tenuta all’ambio da atmosfere consone alle scene (spesso di esito molto felice), non offre mai il fianco ai sopori del cuscino e risulta al contrario interessante.
Anche la fotografia, perduta ogni speranza di avventurarsi in campo lungo su scenografie semanticamente pregne di indizi psicologici e sociali, serve bene l’intento della regia di tenersi sul filo della vicenda, a scapito di una serrata critica d’ambiente e della metatestualità di genere: come se, nel raccontar bene una storia, s’esaurisse il precipuo compito del regista artigianale.
Le belle scene discinte sono invece fuori luogo, poiché ammiccano allo spettatore poggiando sull’abusata dicotomia Eros/Thanatos tipica dei film horror italiani. Avrebbero avuto un senso se protagonista della storia fosse stato Martin Hoffmann, attratto da molte donne in un proprio incubo personale, indiziato qual è dalla polizia. Ma tale centralità del personaggio non avendo ragion d’essere, l’indulgenza alla sensualità è inopportuna, non foss’altro che la passio amoris non costituisce il movente degli omicidî che fanno da fulcro alla narrazione: un errore che non mi è mai capitato di vedere in giallisti o mystery tellers di stazza come Chabrol, Robbe-Grillet o Fassbinder, che ne fanno un uso sempre declinato in semiosi o se ne privano affatto.
Invece Miraglia si appropria di elementi alla moda, con un’iterazione di tipi (specialmente femminili) insopportabilmente troppo belli, d’una bellezza per lo più statica (il che è tutto dire), che cercan di far da riempitivo iconico al botteghino con cui debbono destreggiarsi i produttori.
Tali elementi impoveriscono sensibilmente il film, attraverso indici tematicamente fuorvianti che si accompagnano alla scadente resa realistica della psicologia umana. Non scagiona la pecca psicologica il taglio favolistico di certe scene, garbatamente costruite, se tale imbastitura vien dipoi ordita qua e là alla rinfusa, a vantaggio di una ricaduta nel realismo, che negli anni Settanta doveva apparire un must.
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