La cultura tra welfare e declassamento
Prendiamo spunto da un interessante articolo apparso su «La Repubblica» del 21 novembre, nel quale si parla dell’uscita italiana, per l’editore Marsilio, del libro Kulturinfarkt scritto da quattro autori tedeschi. Il pregnante titolo che si riferisce al collasso della cultura, reca un sottotitolo, Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura, che è molto diverso da quello originale, Troppo di tutto e ovunque le stesse cose, e in qualche maniera allarma.
La tesi e l’interpretazione dell’articolo è, a volo d’uccello, che una sorta di monopolio statale (con annesso assistenzialismo e clientelismo) sta snaturando e ‘addomesticando’ la cultura creando una ‘bolla letteraria’, ‘marchette’ e parassitismo. Interverremo con qualche osservazione aggiornata sul tema, ma vogliamo ricordare che qualche volta anche i tedeschi possono, magari in piccolo, essere anticipati. Questa rivista nel numero di gennaio 2011 ha ospitato un articolo dal titolo Lo spettro largo della cultura che trattava, in maniera diciamo ‘preveggente’, gli stessi temi e che ci sembra opportuno riproporre. Dunque si scriveva: «Il termine cultura è usato e abusato, a proposito e a sproposito; è così vasto e onnicomprensivo che spesso diventa mistificatorio e contraddittorio; può nascondere addirittura violenza; come ogni attività o principio che ha un ampio raggio di azione, rischia il corto circuito, l’annullamento, quando i due estremi – polarità – si toccano. Si può affermare che non vi sia stata altra epoca storica nella quale si sia parlato tanto di cultura come lo si fa, incessantemente, oggi. Dalle grandi città ai borghi più sperduti è tutto un pullulare di associazioni, attività, circoli, iniziative, manifestazioni e spettacoli culturali. Troppi per non essere, in diversi casi, dispersivi, o approssimativi, o falsi; a volte nascondono semplicemente attività commerciali (ristoranti o simili), in altre occasioni diventano il collettore finale, magari senza contropartita reale, di contributi dalla provenienza più variegata. La linea di demarcazione è sempre l’onestà individuale; la figura di ‘operatore culturale’, ad esempio, è esemplificativa: ce ne sono tantissimi che, con competenza e passione, ci rimettono anche di tasca per realizzare cose valide ed utili (culturalmente parlando); altri sono organizzatori di ‘patacche’ o sagre paesane a fini strettamente ‘privati’. Qualche volta, anche i quotidiani nazionali – che inizialmente sono stati buon veicolo di diffusione di letteratura classica o moderna – riducono la ‘cultura’ a gadget, raschiano il fondo del barile per fornire allegati dalla improbabile validità, a fini ormai chiaramente commerciali; in questo caso si assiste ad una triste ‘cultura di passaggio’, dalla stampa al riciclo (se va bene), con una strisciante violenza (e cultura) di massa. Ed ancora: anche con la grancassa della pubblicità televisiva, viene fuori il libro ‘personale’, su misura per soddisfare le ‘insane’ ambizioni di migliaia di ‘scrittori’, zimbello dei ‘moderni editori’ che si fregano le mani mentre intascano il prezzo della ‘operazione culturale’. Ma il ciclo continua: su questi ‘libri’ fioriscono presentazioni, relazioni, dibattiti, tutta una ‘cultura da coro e di giro’, in un tourbillon di ospitate e presenze reciproche e circoscritte. Il guaio è che pure le manifestazioni, diciamo di alto livello, danno il cattivo esempio, privilegiando l’apparire quando non sconfinano nel torbido: alcuni premi letterari sono stati ‘rifondati’ dopo gli scandali , in altri si assiste al festeggiamento della vittoria, dopo la lotteria dei voti, con bevute a garganella di liquore della nota e, immediatamente ripubblicizzata, marca. È il segno dei tempi; in un film si direbbe “è la libertà, bellezza!”; solo che dietro il dilemma tra essere e apparire è in agguato, assai più tragicamente, quello tra essere e nulla. In altre sedi, e per differenti aspetti, si sente parlare di ‘tagli alla cultura’, dire che “(con) la cultura non si mangia.” Tale miopia (cecità?) atterrisce. Non solo perché con la cultura, in senso anche pratico di occupazione e lavoro, si mangia; ma soprattutto perché essa è l’architrave su cui poggiano una Umanità ed una Società virtuose e fortunate. Ma, proprio come una grande Virtù, la cultura è ‘paziente’, silenziosa, tollerante, ‘apprendente’; non grida, ma opera concretamente, crea eleganza, nobiltà, affinamento; crea coscienze rispettose e, con naturalezza, comportamenti virtuosi; fondati sulla conoscenza, anche semplice, elementare, meno che mai di nicchia o vuotamente altisonante. In definitiva la cultura vera non è davanti a noi, ma cresce dentro di noi; con lavoro e studio quotidiano, con l’intimo approccio ed il modo di vivere di chi privilegia l’essere ed il sentire (che spesso deriva dall’ascolto), e rifugge dai ‘ricchi premi e cotillons’. Auguriamoci, riguardo alle ampie sfaccettature della cultura, di non dover aggiungere un ulteriore significato peggiorativo, parafrasando l’inizio del famoso Manifesto: “c’è uno spettro che si aggira, ‘oggi’, per l’Italia …”». Fin qui l’articolo datato ma, purtroppo assurdamente fresco di stampa. Ciò che non quadra e addolora, considerata la ‘stabilità’ della situazione dopo due anni, è quanto esplicitato nel libro e nell’articolo, a firma Francesco Merlo, che nel catenaccio pone questo interrogativo: «troppi soldi pubblici uccidono la creatività?» Vediamo. Benissimo la critica ai finanziamenti a pioggia e clientelari che creano, nell’ipotesi meno dannosa, una sorta di anomalo welfare e, nelle peggiori, artisti in pantofole (un orrendo ossimoro culturale) e parassitismo spacciato per altro. Ma nelle pieghe di questi discorsi è nascosto un pericolo mortale. Che si insinui un’equazione sciagurata: meno soldi alla cultura uguale più cultura; un liberismo applicato alla materia specifica, una sponda, un ponte d’oro per i tagli ‘lineari’. No, sarebbe una soluzione, facile a dirlo, di respiro cortissimo, anzi asfissiante. La cultura, per giunta in Italia dove incrocia patrimoni inestimabili e turismo, ha bisogno di molti finanziamenti, quanti più possibile. Naturalmente, è ovvio e banale, c’è bisogno di un’attenta regia, di un ripensamento degli obiettivi, di tagli, questi sì, a rami secchi o finti, sagre e sagrette, premi e premietti a sfondo parapolitico o parafurbesco. Parafrasando la romanza, è la “solita storia del pastore…”, ed è, alla fine, molto semplice: merito, programmazione e scelte oculate. Richiede in aggiunta, però, due elementi che sono alternativamente a buon mercato e sulla piazza, o difficilissimi a trovarsi e costosi: onestà e polso fermo. Ci vuole una indagine al di sopra di ogni sospetto.
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