La corda e il silenzio
Una signora mi ha chiesto se in carcere si muore ancora? Qualcuno le ha detto che il sovraffollamento come problema endemico dell’Amministrazione Penitenziaria è stato debellato.
Che la totale chiusura di movimento all’interno degli istituti è stata corretta e riveduta. In carcere ora è possibile vivere e non solo sopravvivere.
Con questo nuovo regime carcerario non si hanno più notizie di detenuti che si sono ammazzati.
Forse una visitina in qualche galera non sarebbe inappropriato farla svolgere, non nell’ufficio del Direttore, neppure nella condizione di detenuto, ma volontariamente, tanto per rendersi conto di come una certa disinformazione mieta vittime non solo dentro una prigione, ma anche nella società cosiddetta libera. Costringendo le persone ad allontanarsi dalla realtà circostante, che invece riguarda tutti. In carcere si continua a morire malamente, si muore e tutto finisce lì, senza interrogativi, senza timore di incorrere in una riflessione che faccia male.
Ci si ammazza, tutto qui, niente di eccezionale, come se non accadesse, come se questa ferita persistente della giustizia fosse un semplice ruminar di parole.
No, amica mia, in carcere non c’è tregua a una sfrontata normalità della morte, della violenza, permane un evento critico accettabile, nulla di più e nulla di meno di un conto di mano, una somma da detrarre al famigerato disagio del sovraffollamento.
A volte mi chiedo le ragioni per queste assurde campagne disinformanti, i silenzi assordanti, i rumors ovattati e orchestrati ad arte sulla pena, sulla punizione, sul carcere come Istituzione.
Me lo chiedo perché chi porta avanti questa sorta di alambicco residuale del male che guarisce altro male, della violenza che sana altra violenza, non alimenta l’economia del dettato costituzionale, ma il suo opposto e contrario: una indifferenza feroce che non risparmia alcuno. Sottostimare questo ragionamento riproduce il dis-valore del cane che si morde la coda, consentendo di aggirare il rispetto della pratica delle leggi, che sono tali, non solo tra la collettività esterna, ma anche e soprattutto dentro una cella, dove è necessario veramente tentare di essere-diventare migliori, ma ciò può accadere solamente con la promozione del pieno sviluppo della persona. Una persona viva, non morta, perché in tal caso nulla apporterebbe in termini di prevenzione, infatti trasformare un luogo di morte in una dimensione di speranza, comporta un grande dispendio di energie per svolgere una congrua manutenzione delle coscienze ritrovate. Papi e Presidenti, riferimenti certi perché autorevoli, ci ripetono come dischi incantati, che c’è un grande bisogno di recupero della legalità, valore questo che non può esser richiesto a comodo, tanto meno licenziato come qualcosa di scontato, per niente eccezionale. Cara amica in carcere si continua a morire disperatamente (SENZA PIU’ SPERANZA), senza lasciare alcun monito in queste assenze, sbrigativamente additate come un abuso alla propria libertà personale. Dimenticando che l’uomo ristretto nel frattempo quella libertà l’ha perduta.
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