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LA CONGIURA DELL’IGNORANZA

Settembre 15
12:45 2024

In un interessante articolo sulla rivista Volerelaluna Francesco Coniglione recensisce il libro di Davide Miccione La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, Valore Italiano Editore, 2024.

Il tema è quello della “avanzata dell’incultura nella scuola e nell’università italiana”, figlia di un disegno politico neoliberale che si è progressivamente affermato negli scorsi decenni.

Ormai da tempo studiosi e operatori denunciano il fatto che siamo di fronte ad una sorta di ascesa graduale verso l’ignoranza che segue il giovane a partire delle prime frequentazioni delle aule scolastiche, con la burocratizzazione di ogni aspetto dell’attività educativa, l’invasione di format e test standardizzati propinate dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI), l’irruzione di inafferrabili competenze che hanno finito per sostituire i contenuti disciplinari, la trasformazione del preside in grigio manager interessato solo alla “produttività” (ovvero non perdere alunni, altrimenti verrebbero abolite le classi) e all’organizzazione di attività e progetti che tra l’altro lo gratificano economicamente. Insomma una scuola da cui è progressivamente scomparsa la cultura, sostituita da performance basate su test, addestramenti, capacità digitali e forme varie di socializzazione e nella quale la preparazione e la cultura del docente a nulla valgono a fronte della “raccolta punti” a cui esso è ormai costretto: seguire distrattamente e senza profitto master e corsi di aggiornamento on-line abborracciati da enti di formazione privati, che di tale attività hanno fatto un business assai lucroso. Il tutto viene condito con parole accattivati come democratizzazione, partecipazione, merito, alla cui base v’è però lo scoraggiamento di ogni forma di selezione su di esso appunto basata. Ma così – nota l’autore del libro – «la falsa democratizzazione della scuola italiana […], diventando più facile e meno formativa, è di fatto una scuola classista perché sposta la selezione dalla scuola alla società, una selezione che finisce per radicarsi nel differente ceto di provenienza».

Questo percorso involutivo non si ferma alla scuola superiore, ma si è trasmesso e affermato anche nel mondo universitario. Le varie riforme degli ultimi decenni hanno introdotto nel mondo della cultura concetti e temi cari al dilagante pensiero neoliberale: aziendalizzazione del sapere (con i crediti formativi, l’abbinamento di scuola/lavoro, la valutazione competitiva dei docenti), la dipendenza delle scelte curricolari dai bisogni dell’industria, l’equiparazione fra scuola statale e paritaria, entrambe qualificate come scuola pubblica e poste sullo stesso piano, l’impulso dato alle università telematiche (che distribuiscono lauree e crediti in modo assai più “liberale” delle università statali). A tal proposito vanno ricordate le famose “tre i” di Berlusconi (inglese, informatica, impresa).

La conseguenza è stata una caduta verticale della capacità di lettura e comprensione del testo e della conoscenza della lingua italiana da parte dei giovani liceali, che alla faticosa e incomprensibile prosa dei manuali, per quanto possano essere semplificati, preferisce ormai schemi concettuali liofilizzati o spiegazioni orali tratti dalla rete: «Tutto congiura affinché il giovane studente universitario si limiti a seguire il valzer degli esami e ad uscirne il più presto possibile. Essere colto diventa a questo punto un’opzione personale e lievemente eccentrica, una bella e minoritaria mania».

A livello italiano i dati parlano chiaro: l’investimento nell’istruzione è pari al 4,0 per cento del Pil, mentre quello medio dei paesi dell’OCSE è pari al 4,9 per cento; gli insegnanti italiani sono i meno pagati d’Europa.

Secondo il recensore, il motivo della scelta dell’ignoranza risiede nel fatto che nel capitalismo moderno il potere si è trasferito molto in alto e tutti i dipendenti, compresi i dirigenti, sono solo degli esecutivi. Non serve quindi avere degli intellettuali, che con la propria cultura possano costituire una forza frenante al meccanismo e alle procedure decise altrove, laddove il mondo è nelle mani degli autentici “competenti” che si sono formati in scuole di alto prestigio e che fanno parte della classe dirigente internazionale. A livello locale servono solo buoni esecutori, politici senza cultura e iniziativa. Infatti «un uomo di cultura verrebbe costantemente intralciato dalla propria attitudine a ragionare invece che a eseguire. […] In una società a trazione tecnocratica essere moderatamente ignoranti e restare sempre dentro il perimetro della ragione strumentale è la presentazione ideale».

I ceti dirigenti hanno le loro scuole e i loro percorsi universitari privilegiati, spesso all’estero, a cui indirizzare i propri rampolli o dove cooptare i giovani più intelligenti, vogliosi di far parte della élite che decide. Al resto, a coloro che per possibilità economiche o per insipienza culturale e familiare non hanno capito come va il mondo, resta il ruolo di volenterosi servi, che magari riescono a ritagliare qualche nicchia di privilegio economico, ma che contribuiscono a perpetuare, ne siano consapevoli o meno, il meccanismo di dominio che ormai sembra governare il mondo.

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