La bellezza della scienza nell’arte della parola -3
Oggi, a distanza di quasi quattrocento anni da quei fatti, tutti sappiamo cos’è accaduto ai protagonisti di questa nostra breve passeggiata tra arte e scienza inseguendo riflessi di bellezza. Galilei, padre delle «sensate esperienze», colui che col suo strumento aveva esaltato la facoltà della vista, ne è morto privo (forse perché la vita ci colpisce sempre in ciò che amiamo di più), avendo perduto anche ciò che metaforicamente chiamiamo ‘la luce degli occhi’, l’adorata figlia Virginia. La cospicua eredità da lui lasciata in termini di risultati e di metodo non ha accresciuto solo il patrimonio della scienza, ma anche quello della lingua, in cui ha saputo traghettare con precisione e chiarezza un lessico fino a quel momento latino, piegando all’uso disciplinare specifico termini dell’uso comune (“candore”, “macchie”) ; introducendo d’altra parte tendenze sintattiche nuove, come quella alla nominalizzazione (che connoterà poi la lingua di tanto ‘900) e alla associazione asindetica di più attributi o di avverbio più attributo (“prisma triangolare cristallino”, “corpo naturalmente mobile”) pur mantenendo una articolata e armoniosa impostazione ipotattica del periodo. Marino ha concluso la sua vita da ricco gaudente, baciato dal successo, e tanto fortunato da lasciarla prima di vedere la condanna ecclesiastica del suo Adone. Questo d’altronde, sprofondato a poco a poco nel generale disinteresse, è destinato probabilmente a soccombere definitivamente nell’incontrastabile processo di snellimento, riadattamento e rifunzionalizzazione del canone letterario. Quell’incuriosito e appassionato corteggiamento tra scienza e civiltà delle lettere allora instauratosi nello sforzo comune di modificare la triangolazione Verum = Dio, Falsum = il Diavolo Fictum= ciò che imita la creazione, dunque l’arte, andò a poco a poco esaurendosi. Si è inaugurato, dopo, uno stentato menage da separati in casa, nella fruizione dei servizi comuni di una lingua diversamente impiegata. Tanto più colpisce, quindi, incontrare oggi (dove gli studenti del nostro paese risultano dalle indagini OCSE-PISA quelli in Europa con il più basso grado di familiarità sia con la lettura che con le discipline scientifiche) un testo letterario, la cui protagonista solitaria e discreta è in realtà la matematica. Un libro scritto da un giovane, che parla di giovani, che parla ai giovani, che riceve dal tam tam fra ragazzi la propria consacrazione letteraria, ancor prima di arrivare all’attenzione dell’industria editoriale e dei premi letterari. Un libro che parla di bellezza (negata), di dolore (fisico, da infliggere alla carne per far tacere quello dell’anima), di amore (sfiorato, mai attinto nella sua pienezza), di sopraffazione (all’interno degli affetti, più dolorosa di quella proveniente dall’esterno). Dove la matematica diventa rifugio e consolazione, rituale celebrato in solitudine, bellezza e piacere esaustivo. Stiamo parlando de La solitudine dei numeri primi, opera prima di Paolo Giordano e subito bestseller. Il perché lo abbiamo già chiarito: il suo forte insistere ai giovani molto familiari: la distanza generazionale, l’autolesionismo, il bullismo, la ricerca di sé e del proprio destino. La bambina Alice (curioso! un nome che ci evoca subito un’altra Alice, anche lei “figlia” di un matematico, anche lei vittima di un sia pur diverso “spaesamento” nel paese delle meraviglie) e il bambino Mattia incontrano il loro destino già in apertura di racconto; l’una in una mattina gelida, nel candore lattiginoso della nebbia in montagna; l’altro in una serata gelida, nell’oscurità umida di un parco. Alice vittima di un incidente in montagna subito per compiacere il desiderio del padre di farne una gloria dello sci e che le lascerà una minorazione permanente. Mattia nel compiacere il proprio legittimo desiderio di sentirsi per una volta uguale agli altri compagni di scuola, libero dal peso di una gemella ‘ritardata’ (come gli altri e lui stesso crudelmente la chiamano), Michela, che, andando a una festicciola di classe, abbandona sola nel parco, consegnandola a una morte certa nel fiume. L’andamento contrappuntistico della storia asseconda una tendenza che sembra piacere al pubblico (si pensi anche a L’eleganza del riccio), e al tempo stesso assolve il narratore da più rischiose responsabilità costruttive. Così di capitolo in capitolo, alternativamente seguiamo le non-storie parallele di Alice e Mattia. Non- storia perché in realtà tutto è già accaduto nell’incipit. Quello che si rappresenta poi linearmente, senza grossi interventi analettici o prolettici (risolvendosi questi solo in una sorta di dissolvenze su momenti e scene di vita familiare, a segnare conseguenze psicologiche piuttosto che agire sul movimento narrativo) è l’unico evento successivo all’antefatto, l’incontro o meglio lo sfiorarsi senza potersi mai raggiungere di Alice e Mattia: «Incontro inevitabile di due ruoli già segnati: vittima e carnefice, poiché in realtà Alice altro non è che il doppio di Michela, metafora dell’imperfezione e del fallimento, di tutto ciò che Mattia aborre nella sua ansia di individuarsi, anche contro la propria carne (e dunque l’autolesionismo, le ferite che infligge a se stesso nella fisicità della carne non sono solo contrappasso per espiare il delitto contro la “propria carne” metafora biologica, cioè la sua gemella; sono insieme un continuare a colpire, senza commettere colpa, la parte di sé che rifiuta, quella «passibile, caduca e mortale», «alterabile, generabile, mutabile» ( per usare le parole di Galileo, rovesciandone però le connotazioni, poiché in questi era alla «corruttibilità, alterazione, e mutazione» che si attribuiva un segno positivo) per inseguire quella perfezione «impassibile, immutabile, inalterabile» che riconosce nella matematica. Ecco dunque che la scienza, feconda e solidale con l’arte nell’età barocca, torna ad essere vissuta come solitaria e rassicurante perfezione tra la fascinazione e il dolore del vivere negli occhi di un giovane che sceglie di «tenersi il più possibile al di fuori dell’ingranaggio della vita». Dalla multiforme e “sensata” fioritura, anche linguistica di Galileo, la bellezza della natura torna ad essere «nient’altro che meccanica, conservazione dell’energia e del momento angolare, forze che si bilanciavano, spinte centripete e centrifughe, nient’altro che una traiettoria, che non poteva essere diversa da com’era». (Fine)
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