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La bellezza della scienza nell’arte della parola – 1

La bellezza della scienza nell’arte della parola – 1
Dicembre 09
17:11 2010

“Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, Incisione di Stefano della Bella, 1632 Stimolata a questo piccolo intervento dalla cortese insistenza dell’ing. Luca Nicotra, mi sono soffermata a riflettere sulla formulazione del tema del convegno tenutosi il 30 novembre e il 5,6 ottobre alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma: Nello specchio dell’altro: riflessi della bellezza tra arte e scienza, parendomi particolarmente stimolante la preposizione “tra”, inserita a collegare il tema della bellezza con i due poli verso cui l’interesse e la riflessione sui legami fra arte e scienza precipuamente si rivolgono: arte e scienza appunto. Dunque mi sembra che l’invito rivolto ci solleciti non a rappresentare parallelamente l’autonomo rapporto di ciascuna di esse con la bellezza, intesa come elemento sovrasistemico, quanto piuttosto a individuare di questa la pertinenza diasistemica, come canale di flusso e raccordo tra le due sfere dell’umana creatività, nonché potente agente della loro attivazione. In questo senso si potrebbe rintracciare la bellezza della scienza attraverso l’arte, di cui seleziono qui il segmento che mi è più familiare: l’arte della parola, l’arte del dire. Ma, limitandoci a questo, si trascurerebbe una componente imprescindibile del processo creativo, quella del dolore e dell’isolamento che accompagna ogni sforzo teso a svincolarsi dal canone per istituirne uno nuovo. L’attraversamento di quella “zona oscura” che incombe e interviene a isolare, più spesso che a collegare, arte e scienza dal contesto; inteso, questo, come hic et nunc in cui le due sfere vengono concepite e agite, spazio e tempo della contemporaneità e del rapporto tra produttore e fruitore. Zona oscura intessuta del disagio esistenziale e della distanza dal comune sentire, da una parte; dell’incomprensione, diffidenza e rifiuto dall’altra, quando non addirittura della persecuzione da parte del potere, se non vi riconosce le proprie logiche. L’arte come la scienza, infatti, se al termine del loro processo generativo sono vocate a godere di una fruizione collettiva, non possono però prescindere nella genesi da una tensione e uno sforzo individuale. E l’ansia di questo travaglio è accompagnata spesso dall’incertezza del riconoscimento, dal dubbio sulla validità e dall’interrogarsi sulla stessa finalità etica del ricercare. Ma anche in questa zona oscura, la bellezza, che abbiamo assunto a cerniera tra le due sfere, interviene come lama a forzare il contesto, come balsamo a chiudere le cicatrici dell’io; a conforto per quella che, utilizzando un celebre titolo dell’ing. Carlo Emilio Gadda, chiameremo «la cognizione del dolore». Per esplorare la morfologia non discontinua di questi territori: arte, scienza, bellezza, dolore, è opportuno ripensare ad alcuni casi paradigmatici.
3 luglio 1981: Papa Giovanni Paolo II avvia la revisione del processo contro Galilei (i cui atti a quella data erano incredibilmente ancora in gran parte secretati, e oggi pubblicati grazie all’impegno di Monsignor Pagano, attuale Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano), istituendo una commissione per studi che «approfondissero l’esame del caso Galilei e facessero scomparire la sfiducia che questo caso ancora oppone a una fruttuosa concordia tra scienza e fede».
31 ottobre 1992: la Chiesa riconosce l’infondatezza delle accuse e “riabilita” Galilei, a trecentocinquanta anni dalla morte, avvenuta nel 1642, nell’isolamento della relegazione nella villa di Arcetri e nel buio della totale cecità in cui lo scienziato è piombato.
Galileo inizia nel 1610, con il Sidereus nuncius, il suo viaggio verso il dolore e l’immortalità. Insieme alla risonanza internazionale della relazione arrivano le prime polemiche e le preoccupazioni della Chiesa per le implicazioni teologiche delle sue scoperte. Tratto in inganno dal proprio ottimismo, dalla fiducia nella scienza e nella ragione, osa sfidare il potere della Chiesa e delle auctoritates su cui quella poggia le proprie certezze; combatte al posto giusto, cerca il dialogo, nella convinzione che grandi e rivoluzionarie teorie non possano che passare per una grande istituzione, ma nel momento sbagliato: di fronte ad una Chiesa arroccata nella difesa controriformistica, dopo aver commesso la leggerezza iniziale di sottovalutare la spinta centrifuga ed “eversiva”della Riforma (la quale peraltro, almeno sul terreno scientifico, riguardo alla tesi copernicana, rimane compattamente solidale con la Chiesa Romana). Non che la ricerca di dialogo dello scienziato non trovi interlocutori attenti e interessati nella Chiesa, ma l’urgenza della Storia lascia poco spazio alle battaglie individuali, per quanto titaniche possano essere. Come arma privilegiata per queste, Galileo si affida alla dialettica, all’esercizio della quale piega una lingua affinata attraverso l’educazione dei classici, non solo latini, ma anche italiani, Dante, Petrarca, Ariosto piuttosto che Tasso. La scelta del volgare dopo il Nuncius è dettata infatti non solo dall’intento di assicurarsi più vasto consenso tra un pubblico di “tecnici” non accademici, ma anche dalla consapevolezza di poter sostenere al meglio le ragioni della Scienza Nuova, e veicolarne la fascinazione nell’opinione pubblica, attraverso lo strumento linguistico, che egli padroneggia con disinvoltura pari quasi a quella della controparte. Galileo mostra del resto grande familiarità con il sistema letterario nel suo complesso: seleziona con accortezza i generi in relazione alla materia trattata e all’intenzione comunicativa; dosa abilmente gli espedienti retorici; “mette in scena” una sorta di drammatizzazione (che Campanella acutamente definirà «comedia filosofica») nel Dialogo, dando un “corpo” psicologicamente plausibile alle posizioni ideologiche che si confrontano, e prefigurando in Sagredo il pubblico cui aspira, l’uomo pensante e privo di condizionamenti ideologici, pronto a riconoscere la forza delle ragioni espresse da Salviati. Così, se osserviamo l’incipit del Nuncius, possiamo cogliere subito (anche in traduzione) l’attitudine solenne e, potremmo dire, “propagandistica” del testo nell’anafora insistita («grande cosa»), anche in forma di litote («non cosa da poco»), a sottolineare la portata dell’annuncio. Ma insieme si può notare il segnale di coerenza con l’estetica barocca della meraviglia e del piacere («bellissima cosa e mirabilmente piacevole», «cosa grata e assai bella», «quel che di gran lunga supera ogni meraviglia», «altre cose più mirabili», «con incredibile godimento dell’animo osservai…le stelle»), incardinata sempre su di un’appassionata contemplazione della natura («propongo all’osservazione e alla contemplazione», dove la dittologia sinonimica accentua con il secondo termine l’aspetto di piacere ricavabile dall’osservare), protagonista indiscussa nelle moltissime similitudini e paragoni introdotti a rafforzare attraverso le immagini, e quasi a guidare l’ascoltatore comune nell’approccio a fenomeni e teorie altrimenti di difficile comprensione. Ecco allora che, parlando della superficie lunare, la si descrive «variata da macchie, come occhi cerulei d’una coda di pavone», che «come rupi erte e con aspri ed angolosi scogli si staccano l’una dall’altra con netti contrasti di luci ed ombre» (e non ci sembra di vedere trascritta qui in lettere la predilezione dell’arte figurativa barocca per le sciabolate di luce a stagliare l’elemento prescelto sulla cupezza dei fondali?). (Continua)

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