L.P. e “La parola per il suo verso”
Il lavoro di Luciano Pizziconi (qui parliamo solo del versante poetico della sua vastissima produzione, tralasciando quelli di saggista e filosofo, non meno sorprendenti per fecondità di intuizioni), è attraversato da un ardore incandescente che possiede la forza di ricondurci alle scaturigini della vita. È un tornare a capo, un verginale rinominare il mondo, un tuffarsi con lo strumento poetico nelle origini archetipe, e non storiche o preistoriche, dell’uomo e del cosmo. Quindi un tornare alle sorgenti vive, agli inizi perenni, alle fonti battesimali della vita, che sono sempre attuali, mentre accade spesso al nostro pigro intelletto di ritenerle irraggiungibili o assenti. “La parola per il suo verso” è tutta un risveglio di conoscenze, secondo un’idea della ‘Memoria’ non quale ricordo o tramandamento, ma come rinnovamento di valori e rinascita dall’oblìo: «Dove il Segno diviene richiamo / e il richiamo tensione / e la tensione preludio / e il preludiointeriore creazione, / là è colui che si sveglia».
È un uomo di fede, quello che appare in queste poesie. Una fede – si badi – che si alimenta del dubbio, della macerazione interiore, e che dunque non ha nulla a che vedere con le fedi storiche, che hanno risposte già pronte per ogni interrogativo. È una fede di partenza – la fede della vita in se stessa – quella che il poeta ci offre e ci espone. Una fede che l’uomo è chiamato a ricostruire individualmente, attraversando il mare delle sovrastrutture. Egli scrive: «Non vi consegno un libro di poesia / ma di preghiera». Ed è questa, probabilmente, la chiave di lettura più consona, perché la sua preghiera è un’esplosione della personalità, un superamento dell’io, una liberazione interiore, un’intima unione con l’essere, una folgorazione dell’anima, un’attrazione d’amore. Ed ecco che, questa espressione dell’intimo, in Pizziconi diviene espressione corale. Non collettiva, corale.
Voglio dire che l’insieme è considerato olisticamente non quale somma delle parti, ma come partecipazione della parte all’uno. «Nella diversità io cerco l’Essere, / non la diversità nell’Essere», scrive l’Autore. L’universale, dunque, come esperienza prettamente individuale. Una scoperta del divino che è diffuso nel tutto, pur provenendo da un nucleo invisibile, al di là dell’al di là di ogni manifestazione. Un Dio interiore, che non crea dal nulla, come vuole una tradizione superficiale, ma dalle profondità abissali di Se stesso, mettendosi in gioco direttamente nell’opera: «E l’errante riprende il cammino: / qualunque sorte è quiete al pellegrino / che riconosce in sé lo scorrere di Dio». Una voce così originale e originante può sembrare sulle prime enigmatica e criptica, ma non è così. Lo stile di Pizziconi, infatti, pur dotato di tratti aforistico-sapienziali, che direi oracolari, risulta sempre dialogico e piano. Esso traduce un approccio al mistero per vie non retoriche o altisonanti ma profondamente autoanalitiche, confidenziali. Che sono le uniche, in realtà, ad avere accesso all’insondabile cuore dell’assoluto. Il ‘tu’ concepito all’interno di una struttura individuale duale.
La verità è qui, ora. È sempre presente, dentro e intorno a noi. Se non la vediamo, è per un difetto di prospettiva, perché «Conoscere non è racchiudere la verità / ma edificarsi in essa, mentre diviene». Quindi conoscere dall’interno, secondo le armonie di contrari, e quindi nell’individuale equilibrio. E infatti l’andamento del testo è poematico, nel senso che si snoda in una sequenza epica di vicende che narrano l’individuazione e il superamento dell’Io. È la battaglia di Adamo per sottomettere il proprio ego, per riaprirsi l’accesso alle edeniche vie del Sé e dell’amore universale. È il racconto del lungo viaggio interiore che parte dalle periferie del vissuto, ovvero dal mondo dei limiti e del relativo in cui siamo confinati, per poi tornare ad ‘Itaca’, verso il presente dell’assoluto. L’intento è tutt’altro che ascetico. Il poeta, infatti, non è animato da un desiderio di abbandono o di rifiuto del mondo, bensì, al contrario, dalla nostalgia di recuperarlo nella sua interezza. Un viaggio verticale e metafisico, allora, ma indispensabile al piano dell’esistenza e pienamente inserito negli orizzonti sociali degli obblighi umani. È una navigazione che avviene per tappe, per pause e riprese, graficamente documentate dall’insistenza di parentesi e punti, a significare la complessa sequela delle domande e delle risposte, il respiro del fuori e del dentro, considerati facce complementari di una medesima struttura individuale, qui considerata come universo, etimologicamente un tutto in-diviso, e non come soggetto separato o persona (che significa maschera), forzata a nascondere le regioni di sé più autentiche e oscure.
Come linea di sviluppo dell’intero percorso possiamo assumere quella che va da un iniziale interesse per la metafisica (e sono soprattutto gli Atti Alchemici, poesie giovanili che sbalordiscono per la straordinaria maturità contenutistica e di stile, dove si concentra un intenso e originale studio degli archetipi e delle simbologie misteriche) ad uno sbocco nell’etica, documentato in particolar modo da Centomaschere, dove si osserva il fenomeno delle finzioni mentali, che sempre riducono artificialmente e pretestuosamente la vastità e l’ampiezza dell’Essere ad una sola dimensione. Dice Pizziconi: «Un sofista capzioso è il residuo dell’uomo, / […] / qualunque sillogismo diviene in lui bugiardo». La mente mentisce a se stessa, e di conseguenza agli altri, operando delle esclusioni, ed è da questo arbitrio che nasce
l’emarginazione, con i funesti risvolti sociali che conosciamo. «Tra gli esclusi, l’Essere è il primo degli Esclusi, / o non vi sarebbe ESCLUSIONE», scrive Pizziconi. È allora indispensabile cancellare l’errore iniziale che vanifica la struttura solidale dell’Essere. Non c’è alternativa: o si sceglie la prevaricazione, oppure il rispetto, o il mal-essere o l’Essere. O il culto del limite, dell’egoismo, o il culto dell’infinito e dell’amore (che è amore del Tutto e quindi, necessariamente, anche della Parte). Pizziconi usa una terminologia rigorosa e appropriata. Egli parla di Modello, di Parassita ontologico, di Parassita economico, o, più in generale, di Teologia del controllo, di Padre Violenza e Madre Paura. Noi, semplificando, diciamo che l’origine di ogni sciagura sta nella prevaricazione dell’Avere, mentre l’Essere, nella sua magnanimità infinita, comprende ed include anche l’Avere nei suoi orizzonti. Ne seguono condanne, non per il Profitto, ma per la Monolatria del Profitto, la quale comporta una degenerazione dei modelli economici, una loro trasformazione da mezzi a fini, e dell’uomo da fine a merce.
La prima poesia di Atti Alchemici, che è anche la prima del libro, s’intitola Magister ed è una severa condanna di chi intende l’educazione come un inculcare, un impartire, un modellare le coscienze secondo schemi precostituiti: «Tu reciti “a memoria”, / ma senza ricordare, / e non ti sei persuaso / della tua esistenza / come non mi persuadi / della tua eminenza. / Quale vantaggio avrai dalle parole / se le parole si piegano al vantaggio? / Ho letto i libri, / eppure la mia carne duole. / Occorre la cognizione del dolore». È un richiamo al coinvolgimento personale, al destarsi della ‘Memoria’. Il Maestro, infatti, non dovrebbe avere altro ruolo che quello di facilitarne l’evento o il suo insegnamento prenderà le connotazioni del plagio e della esteriorità. «ONNISCIENZA e IGNORANZA, / ONNIPOTENZA e INDULGENZA: / son questi i golosi controllori, / le “madri” di tutte le insolvenze, / i “padri” di ogni dipendenza. / L’Essere non può sussistere così menomato». Così scrive Pizziconi. Ed è la maieutica di Socrate, figura che gli è molto cara. Cos’è la maieutica? È l’arte di far partorire, di educare nel senso proprio e nobile del termine, da ex-ducare, tirare fuori, da dentro. Ecco il rispetto. È il pensare che in ognuno si annidi la scintilla dell’Essere e che la coscienza altro non sia che la riattivata memoria dell’Essere. Per cui il Maestro deve limitarsi ad indicare al discente le vie dell’Originario se stesso e, da questo, l’etica del mondo nuovo. Tremende sono poi le parole che Pizziconi riserva a tutti i plagiari: «Rimpasta le vecchie profezie, / proclama la santità dell’”io”, / racconta che sono ELETTI, / LORO, i soli predestinati, / e sarai detto PROFETA. / Né troverai più alcuno / che ti voglia smentire. / Soltanto noi resteremo infamati / che rinfacciammo ai Vescovi la Fame». E che dire di “Port Royal (La Disputa)”, una cocente invettiva di tipo dantesco nei confronti dei Dottori della Chiesa, i quali «s’arruffano il pelo ad ogni iota» contro qualsiasi forma di spiritualità che rivendichi l’esperienza. Bisognerebbe comprendere che la fede occorre al fedele e non il fedele alla fede, e il suo valore non può che essere fondato sulla convergenza nell’Uno, perché ogni discorso rigoroso intorno all’identità conduce, inevitabilmente, verso il superamento dell’io e si pone, per ciò stesso, come apertura verso l’altro nel divino, senza grucce dogmatiche. Per cui identità e alterità si integrano e, dice il poeta: «Non c’è fuori né dentro, / tutto è margine e centro». E ancora: «dici “io”, / ma non sai di confonderti: / potresti dire NOI». Un NOI che è sociale e metafisico nello stesso tempo. Anzi, è bene precisare: un NOI che non può essere sociale, se prima non è metafisico. La solidarietà, vuole dirci Pizziconi, non è un fatto superficiale, ma una consapevole convergenza nel fondamento comune.
Noi, invece, «Abbiamo concepito un’essere che non ha esistenza / e un’esistenza senz’essere / […] / Ecco la piaga d’Occidente», dice Pizziconi (a Oriente, ovviamente, ci sono altre piaghe). La divisione, dunque. Sempre e soltanto la divisione! Da un lato l’Essere e dall’altro l’Esistere; da un lato Dio e dall’altro il Mondo. Siamo divisi non soltanto tra noi, ma anche scissi dentro noi stessi. Occorre ristabilire i vincoli solidali, rielaborare il centro perduto, rifondare, nel nucleo di sé, una cultura di «autentica relazione». Riumanizzare il mondo, per Pizziconi, significa dunque superare l’errore soggettivo che riduce l’Essere all’ego, senza per questo cancellarlo, perché ha un ruolo da svolgere nell’armonia universale.
Quindi una relazione che significa rapporto fra l’Io e il Tu, fra la Parte e il Tutto, il primo anello di una parentela che non può essere eluso senza spezzare la sequenza di ogni comunicazione e di ogni legame. Scrive Pizziconi: «La malattia degli uomini è che non vedono l’insieme / […] / Se riconosci dalla parte il tutto / e dal tutto la parte, / la maschera coincide, la visione converge». Cosa bisogna fare, allora, per vedere o intravedere l’insieme? «Consenti alla tua lingua un’intenzione / che sia ben oltre l’ambiguità del soggetto; / non valutare gli eventi / come se ti riguardino: / solo così la maschera coincide al volto del Suo possessore / e non alla faccia del buffone». Fuor di metafora: bisogna fluire senza frapporre ostacoli all’azione dell’Essere, che si avvale del nostro essere particolare per esser-ci, per manifestare la Sua presenza. È un ritorno alla Musa, all’interiore daimon: una coscienza cosmica personalizzata, indirizzata verso colui che sappia porre fra parentesi il proprio io. Ed è il linguaggio del mito allo stato sorgivo, nella primeva complementarità del Maschile e del Femminile. Non del mito favolistico, onirico, manieristicamente ripetuto per usi normativi. No. Nel mito allo stato sorgivo c’è la rivelazione, ed è per questo che esso è estremamente fluido, comunicativo. La verità si dà all’uomo nel mito. Nel mito nativo, in nuce, c’è tutto: l’arte, la religione, la filosofia, la scienza, non ancora separate per ragioni di egemonia. Perciò è poesia appartata, quella di Pizziconi. Tanto più solitaria, quanto più comunitaria, cosmica e – programmaticamente – di relazione.
Per spiegare il paradosso dobbiamo pensare agli svariati abusi del fenomeno comunicativo che spingono a ritenere lineare la banalità del chiacchiericcio, elementare la superficialità del convenzionalismo e dei luoghi comuni. (Roma, Teatro della Visitazione – 19/04/08).
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento