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L’ ’innocente divertimento’ della villeggiatura

Luglio 01
02:00 2008

Briosa, serrata nei tempi, autenticamente goldoniana ci è apparsa la Trilogia della villeggiatura andata in scena al Teatro Valle nel mese di aprile, come coproduzione Piccolo Teatro di Milano e Teatri Uniti, per l’adattamento e regia di Toni Servillo, che, per la chiusura del tricentenario goldoniano (aperto con un Ventaglio del Piccolo), ha rivisitato Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura, unificandole secondo una prassi già inaugurata da Strehler, ma rinunciando alla visione “giacintocentrica” di quello (che aveva voluto fare della protagonista femminile “la vittima dolente di una società che ne segna amaramente il destino”) e vedendo in quella invece “una vittima …partecipe e responsabile”. Il tema della villeggiatura non era nuovo per Goldoni (che lo aveva tentato più volte precedentemente), quando nel 1761 arrivò alla Trilogia, nella quale però da sfondo lo trasforma in snodo problematico tra la regola del vivere e la trasgressione della vacanza, dell’otium. Era divenuta infatti abitudine recente anche della media borghesia il trasferirsi in villa per una lunga stagione estiva fatta di svago, mondanità e gusto dell’apparire. Anche al disopra delle proprie possibilità, e a costo della rovina, come nell’opera rischia appunto di accadere. Ed è proprio contro l’eccessiva liberalità, divenuta ostentazione, che si appunta l’ironia leggera dell’autore. Che peraltro non aveva mancato di stigmatizzare l’atteggiamento opposto, l’avarizia e la chiusura gretta nel cerchio di un ambiente familiare conservatore e oppressivo, nei Rusteghi e nel Sior Todero brontolon, composti nello stesso giro d’anni, tra il 1760 e il 1762, disegnando così quel modello oppositivo giovani-vecchi, tipico della commedia classica. Né Goldoni era nuovo alla prassi di “comporre più commedie sullo stesso soggetto”, come egli stesso ci chiarisce nella Prefazione alla commedia: “Ho cominciato a tentare una seconda commedia in seguito di una prima, ed anche una terza in seguito delle altre due. La prima volta che ciò mi accadde fu dopo l’esito fortunato della Putta onorata …alla quale feci succedere la Buona moglie, Pamela e Pamela maritata… Animato dalla buona riuscita ho tentato le tre…nelle Tre Persiane… e sempre più incoraggiato… ho composto le tre commedie presenti…tutte e tre in una volta…con tal arte…che ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre insieme si uniscono perfettamente”. Ma come si è andato disegnando l’obiettivo polemico dell’autore? Ce lo spiega lui stesso nella stessa prefazione: “I personaggi di queste tre rappresentazioni… sono di quell’ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e i ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri. L’ambizione de’ piccioli vuol figurare coi grandi e questo è il ridicolo ch’io ho cercato di porre in veduta per correggerlo se fia possibile”. Ma accanto a questo “procuro di criticare la follia della dissipazione e i pericoli di una libertà senza limiti”. Richiamo all’ordine dunque, nelle due direzioni della regola sociale, che non si deve tentare di travalicare scimmiottando i grandi, ma anche dell’ordine morale, nel senso di canone dei comportamenti individuali assegnato all’interno di una classe. E ciò da parte di un autore che quest’ordine percepisce e rappresenta come la chiave di volta per la sopravvivenza e l’affermazione di quella borghesia che, con la sua etica e i suoi riti, costituisce il filo tenace su cui si dipanano le vicende della maggior parte dei personaggi goldoniani. A quell’etica tutti devono sacrificare, da Mirandolina, che di essa si fa incarnazione, a Giacinta che, invece, della costrizione della regola sente tutto lo strazio, adattandovisi tuttavia nel finale, al momento di partire, sia pure con parole che per quella classe suonano testamento e monito: “ Mi scorderò i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze…cangiando cielo era da cangiar sistema…Io farò il mio dovere, facciano gli altri il loro”. E’ tra questi due personaggi femminili, appunto, che Goldoni sembra racchiudere metaforicamente la parabola di quella classe: dalle certezze trionfanti di Mirandolina, all’abisso del dubbio e del sacrificio di Giacinta si profila l’ombra del fallimento della borghesia, cui l’autore aveva concesso illimitata fiducia all’interno di una realtà storica, quella della Serenissima, ridotta ormai nel secondo ‘700, a dispetto del passato glorioso, a una modesta entità periferica. Mentre nella Locandiera quella classe, vincente anche in quanto incardinata sull’etica di valori solidi quali il lavoro e la misura, si stagliava in filigrana sullo sfondo di una aristocrazia di frivoli e babbioni, nella Trilogia invece, scomparsi questi ultimi, si disegnano nuove figure di borghesi, svuotati di concretezza, anzi affannati nel tentativo di mutuare costumi e movenze proprio da coloro di cui hanno decretato il tramonto. Ecco disegnarsi allora insieme nella Trilogia crisi storica e crisi individuale, per un Goldoni che già si affaccia sul suo destino di volontario esilio a Parigi, iniziato nel 1762 e concluso con la morte nel 1793: un lungo trentennio buio di insoddisfazione e povertà, di cui ci lascia dolorosa testimonianza nei Mémoires. L’emergere del tema sociale si coglie qui del resto anche nella curiosa riflessione della Prefazione: “L’innocente divertimento della campagna è divenuto a’ dì nostri una passione, una mania, un disordine. Virgilio, il Sannazaro, e tanti altri panegiristi della vita campestre, hanno innamorato gli uomini dell’amena tranquillità del ritiro; ma l’ambizione ha penetrato nelle foreste: i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori, i quali dalla superbia de’ loro padroni apprendono la loro miseria.” Mentre palpabile è il distacco emotivo che separa qui l’autore dai suoi personaggi, a nessuno dei quali riesce ad aderire completamente: non ai ‘giovani’, Leonardo e Guglielmo, scapestrati intenti ad inseguire ora l’apparenza ora l’eros o il denaro; ma nemmeno ai vecchi, privi di spessore sia umano che morale, e che anzi declinano un ampio repertorio di meschinità, dall’edonismo di Filippo, alla grettezza moralistica di Fulgenzio, all’avidità del ’parassita’ Ferdinando. Ruolo che Servillo ha riservato per sé, quasi come metafora del regista (“perché è quello che passa da una casa all’altra, e vive alle spalle degli altri. Non nel senso del parassita, ma letteralmente nella posizione dell’osservatore, e anche di commentatore divertito di quello che accade”); ed interpreta superbamente, quasi con ‘sfacciata’ soddisfazione. Anche perchè sembra saldare una linea ideale che da Goldoni conduce a De Filippo, nei quali il regista legge una “dimensione italiota”, intesa come “inerzia spirituale, morale e intellettuale di un tipo medio che è l’”italiano”… con la sua ignavia intellettuale e la sua accidia emotiva, che ce lo possono perfino rendere simpatico: perché dal gioviale e terribile Filippo della Trilogia, si arriva facilmente a Cupiello”. Senza dimenticare quelle origini “atellane”, che Servillo rivendica come orgoglioso radicamento in un territorio che “continua a nutrirsi in maniera straordinaria di palcoscenico e recitazione”.

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