L’Inno di Mameli: sussurri e grida
ssi ha voluto sparare l’ennesimo siluro contro uno dei simboli nazionali più “forti”: l’Inno di Mameli, ossia uno di quei tipici argomenti dove di norma, quasi fatalmente, la quantità di discorsi che si producono è inversamente proporzionale alla qualità della specifica conoscenza. In poche parole, generalmente chi più ne straparla (a torto o anche con ragione) meno ne sa. Prima di entrare nel vivo della nostra riflessione, quindi, occorrono un paio di notizie sintetiche sull’oggetto del discorso. Nel 1847 Goffredo Mameli (quanti sanno pure che si chiamava Goffredo, che era genovese, che aveva solo vent’anni e che morì due anni dopo, a Roma?) scrisse il testo di un inno patriottico e lo chiamò Canto degli Italiani. Primo inciso. E’ intanto evidente che la definizione corrente di Inno di Mameli, tecnicamente, non esiste, al pari dell’altra di Fratelli d’Italia che si appoggia semplicemente al primo verso del testo: l’inno ha un proprio titolo e con quello dovrebbe essere sempre connotato. Ma andiamo avanti. L’autore affidò il testo al maestro Michele Novaro, che compose – in uno stile didascalico che ben si accordava con la stagione di lotte risorgimentali – una marcetta di nessun valore artistico ma di facile uso popolare. Secondo inciso. Quanti conoscono nome e cognome del musicista? Quanti invece attribuiscono al buon Mameli l’intera paternità dell’inno? Procediamo oltre. L’inno ebbe una buona popolarità, ancorché non superiore ad altri canti patriottici dell’epoca, dopo di che cadde in un sostanziale oblio secolare. Del resto con l’avvento dell’Unità d’Italia (1861, per i più distratti) non vi fu problema di inno nazionale in quanto, semplicemente, esso c’era già da tempo (1831) ed era la Marcia Reale che re Carlo Alberto aveva commissionato al maestro Gabetti come inno personale di Casa Savoia e che rimase poi in uso fino alla caduta della monarchia. Nel 1946 i Padri Costituenti, dovendo cestinare immediatamente la Marcia Reale ma anche dotare la neonata nazione d’un apposito inno in tempi rapidissimi, dopo un attento studio scelsero di adottare quello che per convenzione continueremo a chiamare “Inno di Mameli” come inno provvisorio, riservando a tempi meno frenetici la scelta definitiva. Per la bandiera fu molto più facile: bastò togliere l’emblema sabaudo che campeggiava nella banda bianca centrale. Terzo inciso. A ben vedere e passati pure 147 anni dalla sua creazione, lo Stato italiano non ha ancora, di fatto, un proprio inno: fino al 1946 come inno ufficiale è stato utilizzato quello “privato” del re, dopo di allora l’Inno di Mameli è rimasto desolatamente “provvisorio” (oltre che designato in modo improprio!) anche se vari disegni di legge costituzionale – tutti comunque tesi alla “sanatoria” e quindi alla ufficializzazione di quest’Inno ormai sedimentato – giacciono chiusi nei cassetti. Il problema è che l’identificazione dell’inno nazionale risiede in una norma costituzionale, la quale può essere modificata solo con macchinosissime procedure parlamentari che proprio per tale motivo sono state finora assai rare. E’ vero che l’ultima modifica è stata quella che ha consentito il rientro dei Savoia e che molti potrebbero obiettare che si poteva dare la precedenza all’inno anziché a quei sovrani da operetta, ma è pur vero che l’operazione – davvero tipicamente “all’italiana” – è stata fatta solo per salvare la faccia sulla scena internazionale: la Corte di Giustizia de L’Aia stava infatti per imporcelo in quanto la pena dell’esilio non esiste più in nessuna legislazione europea.
Fatta questa lunga premessa, dove vogliamo andare a parare? Semplicemente lì da dove siamo partiti: quando ci lamentiamo che qualcuno insulta l’inno o che i giocatori della Nazionale di calcio non lo cantano, sappiamo almeno di che stiamo parlando? Dando per scontato che quasi nessuno lo conosce a memoria (salvo qualche verso), quanti hanno mai letto anche solo una volta il testo dell’inno? Quanti sanno che è composto da ben sei lunghissime strofe? Quanti conoscono anche solo a spanne il contenuto del testo? Facile risposta: NESSUNO, compreso……chi scrive queste righe ma che per scriverle si è opportunamente documentato ed ha l’onestà di ammetterlo. Ecco l’esempio-principe dell’italica ignoranza. Da un lato c’è stato un Bossi che tuonato “Che cosa, l’Italia schiava di Roma? Tiè!” e ci ha aggiunto il famoso ed inequivocabile gesto col dito medio. Abbiamo così il primo somaro ragliante: se l’Umberto avesse letto bene il testo avrebbe almeno “scoperto” che non è l’Italia ma la Vittoria a dover essere “schiava di Roma” (perché così fatalmente soggiogata Iddio la creò), dove sia Roma che la Vittoria sono entrambe ipostasi di ben più alti concetti ideali e del tutto spersonalizzati. Comunque sia, di fronte a cotanto oltraggio alcuni valorosi parlamentari (ripeto, parlamentari, dunque uomini delle istituzioni) si sono fieramente sdegnati ed hanno denunciato per oltraggio il “senatùr”. Il giudice ha doverosamente vagliato la querela, dopo di che……ha altrettanto doverosamente archiviato la pratica. Ed eccoci agli altri raglianti somari ossia i pur volenterosi parlamentari. Questi infatti, ancora più colpevolmente per via del ruolo istituzionale, non sapevano che l’inno italiano è ancora formalmente provvisorio, mentre lo sapeva benissimo il giudice il quale – non potendo ravvisare nei codici alcuna forma di reato verso una figura che al momento ha solo un valore simbolico – sia pure a malincuore ha chiuso il faldone. Dando quindi per scontato tutto il rispetto (morale, culturale, ecc.) che è o sarebbe dovuto ai simboli nazionali, c’è da dire che dal punto di vista puramente giuridico in realtà tutto è permesso: l’oltraggio alla bandiera è stato da tempo depenalizzato, l’inno non è ancora degno di tutela; Garibaldi, Mazzini, Cavour e così via sono solo personaggi storici al pari di molti altri dei quali si dice infinitamente peggio. Del resto, basta sentire cosa si dice impunemente del Capo dello Stato in carica nelle stesse aule parlamentari: se davvero vogliamo che tutto ciò sia rispettato, allora che si erigano gli opportuni steccati di legge. Tornando all’inno nazionale, c’è poi un altro processo perverso: se non è contemplato nella Costituzione, non può rientrare nei capisaldi della cosiddetta “educazione civica” e quindi non può nemmeno essere inserito nei programmi di studio nelle scuole. Si potrà eccepire che neanche la stessa Costituzione viene degnata di uno sguardo nella platea scolastica, ma qui entriamo già in un altro contesto e in altre valutazioni. In conclusione possiamo solo osservare questo: molti s’inalberano (con un pizzico d’ipocrisia) se un Bossi – trucemente folcloristico ma socialmente innocuo – vilipende l’inno e la bandiera (importanti simboli ma privi di tutela giuridica), ma molti di più sono quelli che purtroppo hanno vigliaccamente taciuto allorché una schiera di personaggi ben più pericolosi socialmente hanno inneggiato ad un orrendo crimine sanguinoso urlando sulla pubblica piazza “10-100-1000 Nassirya”. Questo nostro bizzarro Paese ha purtroppo una memoria collettiva che, al pari della coscienza civica, è molto duttile: si allunga e si accorcia a seconda delle convenienze e delle partigianerie. Ennio Flaiano coniò un corrosivo aforisma applicabile soprattutto in questo caso: La situazione è grave ma non è seria.
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