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L’abuso dei ‘contratti a termine’ nella pubblica amministrazione

L’abuso dei ‘contratti a termine’ nella pubblica amministrazione
Settembre 15
22:00 2015

La sentenza in questione ha stabilito un principio fondamentale per cui, una volta dimostrato che la pubblica amministrazione fa un uso abusivo del contratto a termine, il lavoratore ha sempre diritto al risarcimento del danno senza dover dare dimostrazione del danno subito.
Si tratta di una vera e prorpia ribalta nell’impostazione precedente secondo cui al contrario il lavoratore doveva provare i danni subiti. La Corte stabilisce che il danno è in re ipsa, cioè in se stesso, prendendo anche spunto dall’ordinanza “Papalia” della Corte di Giustizia Europea, causa C-50/13, del 12 dicembre 2013, in base alla quale gli Stati membri dell’Unione non possono subordinare il risarcimento del danno del lavoratore a termine nel settore pubblico alla fornitura di una prova eccessivamente difficile. Danno che, secondo la Cassazione, deve intendersi come danno comunitario, in particolare, ed in considerazione anche del d. lgs. 165/2001 art. 35 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), deve consistere in un risarcimento adeguato, effettivo, proporzionale e dissuasivo rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della pubblica amministrazione di contratti a termine, determinando la possibilità per il datore di lavoro di provare le conseguenze negative evitabili dal lavoratore, mentre quest’ultimo deve limitarsi a provare l’illegittimo utilizzo di più contratti a termine.
Nel definire precisamente il risarcimento in questione si dovrà considerare il numero dei contratti a termine, l’intervallo di tempo intercorrente tra i vari contratti, la loro durata e quella della reiezione ed infine bisognerà tener conto anche del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, in virtù del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione per cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Ci sono dubbi sull’impostazione fornita dalla Corte riguardo l’aspetto della quantificazione del danno, visto che si stabilisce la preferenza per il criterio delle mensilità da 5 ad un massimo di 12, escludendo quello forfettario, determinando così per i secondi la trasformazione del lavoro in rapporto a tempo indeterminato, mentre ai primi si riconoscerebbe solo l’indennità.
In considerazione invece di quanto stabilito dall’UE e da quanto si può dedurre dalle norme nazionali, la soluzione più equa sarebbe quella di prevedere anche nella PA un risarcimento pieno e proporzionale, con l’applicazione di un sistema dissuasivo dell’abuso del precariato equivalente a quello previsto in ambito privato, vale a dire la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Rilevante, ai fini di tale impostazione, è per esempio l’art. 3 della Costituzione, per cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale di fronte alla legge, senza distinzione di sesso,di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, ma soprattutto la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e che quindi impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Cassazione civile, sent. 1260/2015

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