Ipotesi sul Mito
Giovan Battista Vico riteneva che i miti sono il modo primordiale ed infantile di pensare e di esprimersi dell’umanità, ma già nell’idealismo classico si era sostenuto che essi non sono altro che una forma attenuata o imperfetta di intellettualità. Da parte sua, Hegel ha confermato questo assunto, affermando che il mito rappresenta un modo ancora imperfetto e rozzo di pensare, sostanzialmente immaginifico e sentimentale: quel modo che verrebbe superato nelle espressioni più mature e razionali del pensiero stesso, prima fra tutte la filosofia. A me sembra che questa teoria progressiva e lineare dello sviluppo del pensiero non trovi riscontri nella realtà. Basti pensare che anche la nostra era, intellettualmente e tecnologicamente avanzata, ha avuto i suoi miti. Cos’altro era, se non un mito, l’esaltazione futurista della macchina, della velocità, del dinamismo, dell’azione? I miti non appartengono alla preistoria. Appartengono all’umanità. I produttori di miti, i mitopoieti, sono sempre esistiti, così come è sempre esistito il tecnico ed il politico, il giurista, l’organizzatore, eccetera. In qualsiasi contesto culturale le facoltà del pensiero funzionano simultaneamente e non in maniera selettiva, anche se l’equilibrio tra i vari settori è instabile e le età storiche sono segnate quasi sempre da una prevalenza di un modo di pensare sull’altro: a volte prevale la religione, altre volte la scienza, altre la filosofia, e via dicendo.
Tuttavia in questo squilibrio dinamico devono necessariamente venire contemplati momenti di equilibrio e di armonia, senza i quali nulla si potrebbe squilibrare dando origine al divenire. Sono questi i momenti del mito, dove l’uomo scopre l’unità profonda che lega l’arte, la religione, la scienza, la filosofia, ovvero scopre la propria integrale umanità. L’essenza dell’uomo è mitopoietica, ma nel corso della sua esistenza (come della sua storia) egli raramente riesce ad inserirsi in questa sua alta tensione creativa, giacché si lascia facilmente prendere dal conformismo. E’ una flessione indispensabile del pensiero, che evidentemente non può stare sempre sul piede di guerra. C’è bisogno di tappe, di pause, in un ciclo costante (ma mai ripetitivo) di innovazione e di convenzionalità.
Chiameremo mitopoietici i momenti di grazia e pienezza, segnati da grandi rivelazioni sul senso e sul valore della vita, mentre chiameremo mitologici gli stati successivi, segnati dalle schematizzazioni riduttive. Le due fasi sono cicliche e non vanno intese in maniera progressiva, bensì complementare, nonostante la prevalenza alternante dell’una sull’altra. Ciò comporta la vitalità sincrona di entrambe, escludendone la possibilità di eliminazione selettiva.
Nelle culture arcaiche, animistiche, l’uomo fu per lungo tempo un produttore di miti, e quando questi decaddero a mitologia, ovvero a favole stanche e ripetitive, la strada fu aperta per lo sviluppo del pensiero razionale con modalità totalmente opposte a quelle che presiedono alla nascita del mito. Ciò non vuol dire che prima di allora mancasse nell’uomo la facoltà razionale, ma solo che quella facoltà non aveva ancora il ruolo trainante che assunse successivamente nella cultura. Il prevalere di una particolare modalità di pensiero è infatti temporaneo e non è sintomatico dell’estinzione di altri modi di pensare.
La cultura razionalistica nacque dal disfacimento del mito, ma la mitopoiesi non ne restò fagocitata e continuò ad operare nel profondo, seppure in condizioni di inferiorità. Non si deve pertanto pensare al razionalismo come ad uno sviluppo che supera ed elimina il precedente modo di pensare, ma come all’avvio di un percorso diametralmente opposto, capace di porre fra parentesi le precedenti visioni, mandandole temporaneamente in oblio. La negazione segue l’affermazione, e viceversa, per ragioni di equità. Si contrastano ferocemente tra di loro, ma hanno bisogno l’una dell’altra. Si sbaglia pertanto a relegare l’animismo nel periodo infantile, nelle origini storiche o preistoriche dell’umanità, magari confondendolo con il feticismo e con la superstizione. L’animismo parla piuttosto delle origini metastoriche, della costituzione universale dell’uomo e di tutto il vivente, dell’impronta immutabile delle cose, che, in quanto distaccata dal tempo, è perennemente presente nella temporalità. Nulla ha a che fare, questa alta e simbolica spiritualità, con la degradazione dei simboli in idoli e feticci, che appartiene per intero alle fasi mitologiche successive.
Bisogna distinguere le stagioni sorgive e creative, luminose del mito dal manierismo favolistico e dogmatico della mitologia. Bisogna distinguere gli stati aurorali del pensiero, che sono sempre innovativi (e io sostengo animistici), dalle flessioni schematiche successive. Occorrono entrambi gli stati, intendiamoci, alla pulsazione del pensiero, perché questo ha bisogno di mutevolezza, di circolarità. Essi non vanno tuttavia confusi tra di loro. Animismo e feticismo sono due modi per dire l’alba e il tramonto, l’inizio e la fine: fasi che appartengono per intero all’avventura dell’uomo, al suo cammino spirituale.
Il mito non è altro che un risveglio del senso della vita, risveglio che presuppone il proprio andare in oblio. Quando la mente è vergine, non può che essere ispirata (da in-spirare = introiettare), perché non c’è nulla di costruito, di già elaborato dentro di lei. Ed è lo stato in cui nascono i miti. Quando al contrario la mente è chiusa in se stessa, nel proprio labirinto, non può che lavorare d’arbitrio e molto difficilmente si può esimere dai miraggi, dalle illusioni. Ma è proprio questa la condizione indispensabile perché essa torni, per desiderio di guarigione, alla pregnanza originaria ed originante dei miti.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento