“Io Capitano”, la dolcezza dell’Africa, dal sogno alla dura realtà…
Serena Grizi – Io Capitano, il film di Matteo Garrone, ‘Leone d’argento – Premio speciale per la regia’, Premio Marcello Mastroianni a Seydou Sarr, in lizza per il Premio Oscar 2024, è il film scritto sulle memorie del Viaggio dall’Africa all’Europa (Senegal – Italia) così come raccontate tra le genti del nord e centro Africa (basta leggere Non dirmi che hai paura di G. Catozzella, Nel mare ci sono i coccodrilli di F. Geda e le molte testimonianze di cultura dall’Africa vendute dai ragazzi librai ambulanti, tutte davvero bellissime). C’è la rudezza del ‘cunto’ orale, che riferisce di tutti quelli che non tornano più, la conta dei morti, lo strazio per donne e bambini; i padri partiti per dare futuro ad intere famiglie che restano in Africa. Ma per Seydou e Moussa/Moustapha Fall, cugini sedicenni, c’è soprattutto il sogno, tratto perlopiù dai social: loro sono due cantautori, autori di rap condivisi con gli amici; Dakar è città della musica e la storia comincia proprio da una festa, col folclore locale di balli e musica che fa scatenare tutta la comunità. In segreto, i due lavorano e mettono da parte quanto servirà per il Viaggio che, per loro, come per quello molto meno pericoloso di Massimo Troisi dal sud al nord in Ricomincio da tre non è viaggio di emigranti in cerca di fortuna, ma di ragazzi in cerca di nuove avventure e conoscenze, in questo caso, di successo, diritto umano inalienabile.
Già dalle prime inquadrature, e poi per il resto del film, si sente persino il profumo dell’immenso Continente e delle sue genti, delle stoffe e della terra: si notano i colori saturi e gioiosi di paesi giovani nella fotografia lucente di Paolo Carnera: Seydou e Moussa sono adolescenti come gli altri, bellissimi e attenti al look e, anche se ‘tarocchi’, indossano jeans e felpe di importanti marchi italiani e francesi, vogliono altro da quel che hanno, anche se non mancano di nulla e il gineceo delle sorelline di Seydou restituisce gioia e calore familiare; la madre è una dolce amica (i due si rivolgono parole piene di rispetto e affetto), che si dimostrerà dura con lui solo quando capirà che, con Moussa, accarezzano il sogno di andarsene di casa. I due cugini, per carattere, si compensano: Seydou è presenza e sorriso, attaccamento alla famiglia; Moussa ha un magnifico volto mandingo, lui, tra i due, è la forza, l’innovazione il coraggio e anche quello che avrà la sorte peggiore, che tenterà di spezzare la sua fiducia nel futuro. Nel lungo viaggio fra il deserto, la prigione, i porti, il mare i due contatteranno la ferocia degli africani di diverse nazioni che cercano di mettere le mani sullo scarno portafogli che i migranti riservano al viaggio, e tutto costa almeno cento euro (o moneta similare) e suoi multipli, fino a migliaia di euro. I venditori di passaporti, i carcerieri, i torturatori, non sono meno africani dei braccati e torturati, ma appartengono alla razza mondiale dei grassatori, di quelli che s’approfittano della buona fede, della speranza, o della fantasia illimitata dei conterranei più poveri o troppo giovani, come i nostri due. Il film, come in una favola, testimonia della solidarietà e vicinanza dei compatrioti senegalesi, comunità nel mondo, in quanto ad aiuto e sostegno gli uni con gli altri e nel riconoscimento della fragilità dei più deboli. I due ragazzi, cresciuti all’ombra di questa cultura non potranno dimenticarla. Il film segue soprattutto le evoluzioni oniriche di Seydou che quando è al colmo del dolore o della disperazione evoca i suoi spiriti, gli angeli (vestiti di colori brillanti o di delicate piume e piccole conchiglie, puri e leggeri, ricordano coi loro voli le acrobazie del pasoliniano Il fiore delle mille e una notte); esistono studi antropologici sui sogni di molti migranti che, quando riescono a dormire, tornano a casa loro attraverso il sogno, casa che molto spesso non gli sarà più possibile rivedere nel corso dell’esistenza. I ragazzi hanno dalla loro parte l’innocenza e il sogno, e qualche volta provano a trasformarlo in realtà. Nonostante la ferocia umana, lo sfondo che ospita i migranti è bellissimo, forse più bello che nella realtà vera, ma anche quando la poesia dell’immagine e della luce sembra prendere il sopravvento il film poi torna crudamente a cosa sta succedendo davvero sullo schermo (e nella realtà di tutti i giorni) e quanto tutto ciò trasformerà i corpi e i volti dei due giovani viaggiatori (in alcuni tratti del corteo infinito fra dune dorate e oasi di palme non destinate ai migranti, pare di veder camminare anche gli spiriti di chi già non c’è più da tempo per aver affrontato lo stesso periglioso percorso…).
Mentre Moussa si trova quasi impossibilitato a muoversi, Seydou sarà chiamato ad un ultimo grande sacrificio, che affronterà non senza l’aiuto vigile del cugino, attraverso il quale i due pagheranno il tributo all’iniziale superficialità con cui hanno lasciato la loro terra; e se anche questo nelle intenzioni della regia non voleva essere monito, lo diventa, ma lo diventa soprattutto nei confronti dello spettatore poiché la domanda che corre in sala, fra persone in buona parte già edotte riguardo l’immane tragedia del Mediterraneo e dei deserti è Perché tutti loro non sono liberi di andare e venire, col loro passaporto legale, magari in aereo, come ogni europeo? La sceneggiatura di Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri, la regia attenta, toccanono davvero tanti temi e realtà che ognuno potrà rintracciare nella trama del racconto per altro molto visivo e scaturito dalla soggettiva dello sguardo pulito dei ragazzi. La scelta del wolof, del francese e inglese parlati tradizionalmente negli stati attraversati, lascia ancor di più allo spettatore la traccia d’una prospettiva diversa. Da quel Viaggio immersi nell’umanità si esce con una punta di speranza, un sorriso lieve, la trasfigurazione del volto del protagonista porta con sé un dolore epocale e una forza immane irrobustita dagli eventi, dolorosi fino in fondo, oltre l’immaginazione. Quello sguardo pare raccontare che se esisteranno ancora solidarietà, affetti, persone generose e stanche d’ingiustizia…il mondo ce la farà.
Letture:
Articolo di Simona Cella sul periodico Nigrizia, 8 settembre 2023:
Il cielo sopra Ibraima – come gli immigrati giudicano gli italiani di Penda Thiam e Giuseppe Cecconi, Giovane Africa Edizioni
#Nonleggeteilibri – “Non dirmi che hai paura”, correre per la vita…
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