Ingeborg Bachmann e Roma – V
Tumultuosa e inquieta fu anche la sua vita sentimentale. Si innamorava sempre della persona “sbagliata”: prima del poeta ebreo Paul Celan, che raggiunge a Parigi per una convivenza “strindberghiana” destinata a un rapido naufragio, non senza strascichi dolorosi e sparuti ritorni di fiamma; poi di Hans Werner Henze, che però è omosessuale e le consente solo un’amicizia tenera, priva di eros; infine dello scrittore svizzero Max Frisch, dal 1959 al 1962. È per lei e guidato da lei che Frisch arriva a Roma, la città «dalla grande luce». Vanno a vivere ai Parioli, “in uno strepitoso appartamento a due piani con due terrazze e vista mozzafiato”1. Girano a piedi per il centro o si avventurano in gita fuori porta su una Fiat bianca cabriolet. Ingeborg lo mette in contatto con «artisti, critici e giornalisti che gli rendono omaggio, lo intervistano, lo fotografano, perché lui, lo scrittore-architetto autore di Homo Faber e di Stiller, è un vincente».2 Appunto per questo non si lascia incantare dalla “dolce vita” romana, anche se trova la città molto stimolante, per certi versi la “più bella del mondo”. Gli anni romani di Frisch accanto a Ingeborg ruotano in realtà attorno alla febbrile stesura del romanzo Il mio nome sia: Gantenbein, che pubblicherà nel 1964. La loro storia, però, s’interrompe rovinosamente, lasciando in entrambi una cupa sensazione di sconfitta. Dopo un’estate di solitudine, Frisch conosce Marianne Oellers, una studentessa che potrebbe essere sua figlia (ma anche Ingeborg è più giovane di 15 anni). Passeggiate romantiche e gite al mare sono solo il prologo a quella che si dimostrerà ben più di un’avventura da “vacanze romane”, al punto di sfociare in matrimonio, nel 1968. Ingeborg intanto sta male: non aspettava altro che d’essere sposata. I due ex, specialmente Frisch, sono travolti dai pettegolezzi del loro ambiente. Da quel momento in poi la scrittrice austriaca si lascia andare a un crollo lento ma inesorabile, malgrado il grande successo ottenuto con Il trentesimo anno. Negli ultimi anni della sua vita abusa di psicofarmaci ed è vittima di crisi depressive. Dal 1963 non scrive quasi più; in compenso viaggia parecchio. Negli ultimi anni, riallacciati i contatti con Henze (di cui Frisch era gelosissimo), prende la consuetudine di raggiungerlo nella sua villa di Marino, sui Colli Albani. I due, legati dalla tenera pluriennale amicizia e da un proficuo rapporto di collaborazione artistica, passano qualche ora insieme ad ascoltare musica, soprattutto l’amato Mahler. L’ultima volta che lo va a trovare è nell’estate del 1973. Ingeborg gli appare «offuscata, confusa, drogata».3 Articolando con difficoltà le parole, manifesta la volontà di sottoporsi ad una cura disintossicante. È un crepuscolo che s’infittisce di tenebre ma che sta per produrre un’ultima tragica terribile fiammata.
Roma, settembre 1973. Appartamento di via Giulia – ultimo dei suoi domicili romani, dopo Piazza della Quercia e via Bocca di Leone. Ingeborg si addormenta con la sigaretta in mano. La vestaglia di nylon che indossa la rende in pochi istanti una torcia umana, destinandola a una morte «carica di suggestioni plateali, e atrocemente emblematica di una vita bruciata nella solitudine e nell’autodistruzione. Il corpo era rimpicciolito, disseccato dalle fiamme, e il suo bel volto impenetrabile appariva sfigurato e corroso».4 Ricoverata nel reparto grandi ustioni dell’Ospedale Sant’Eugenio di Roma, Ingeborg Bachmann resiste in coma per tre settimane e poi muore, il 17 ottobre 1973, consegnandosi ai posteri come una delle figure più complesse e dolorose della letteratura del Novecento. (Fine)
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(1) P. Sorge, Max Frish: due amori e una città, “La Repubblica”, 7 maggio 2002.
(2) Ibidem.
(3) L. Bentivoglio, Ingeborg Bachmann. A Ischia con passione, “La Repubblica”, 22 luglio 2002.
(4) Id., Il dolore di Ingeborg, “La Repubblica”, 16 ottobre 2003.
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