Ingeborg Bachmann e Roma – III
L’esperienza romana, già attraversata, maturata e raccolta nei reportages per la radio di Brema, trova la sua conclusiva sedimentazione poetico-letteraria entro uno scritto in prosa del 1955, Quel che ho visto e udito a Roma, per certi versi accostabile alla coeva Interpretazione di Roma di Giuseppe Ungaretti.
Come quest’ultimo, ma complessivamente più immediato, il testo della Bachmann elude le insidie del ‘famigerato’ resoconto di impressioni romane, per aprirsi invece alla ricerca fenomenologica, quasi pre-categoriale – benché filtrata nei “colini” di un soggetto che interpreta e concettualizza, in chiave filosofica – delle formule di rivelazione della città, «della sua essenza, così come si mostra molto concretamente in certi momenti”. Un’operazione “magico-metafisica», nota bene Giorgio Agamben, “come in certi racconti racconti di Vigolo, che evocano l’essenza di Roma in un temporale, in un assolato pomeriggio d’estate, in un cortile sognato” (1). Dal “montaggio” attento e bilanciato dei particolari, guadagnati allo sguardo avido della scrittrice, emerge il quadro complessivo di una presenza epifanica, come di realtà oggettiva – talora corposa e carnale – sul punto di sciogliersi, di librarsi in mistero che rifulge, tra i portati stessi delle sue ombre. È una Roma “stranita”: perturbata, inquieta, dissonante. Assolutamente non oleografica. Bella anche delle sue “bruttezze”, delle sue trascuratezze, dei suoi miasmi: delle sue vitali e dinamiche contraddizioni. La percezione è largamente focalizzata sul predominio degli occhi: in pochissime pagine si riscontrano ben 12 capoversi incastonati dall’espressione “A Roma ho visto”. Che vale anche e soprattutto di per sé, in senso archetipo: a prescindere dai contenuti. Scriverà infatti di aver imparato proprio a Roma a guardare e ascoltare. È il continente elementare dell’Essere che si manifesta, in un tirocinio reversibile e autologico di conoscenza, attraverso le molteplici stratificazioni del Tempo a Roma. Fino alle radici del mondo, al cuore sanguinante della vita. Quale miglior luogo per “imparare a darsi tempo”?
«Devo ammettere che solo a Roma ho imparato a darmi tempo. E se anche questa fosse l’unica cosa che mi ha dato la città, sarebbe già abbastanza (2). Il tempo è strettamente legato all’essere. L’essere è tempo. Roma dunque è l’arca storica di fondazione e nominazione elementare delle cose. Il luogo dove guardare è vedere, vivere è restare, conoscere è ri-conoscere – ogni volta daccapo, come all’inizio del mondo. A Roma ho visto che tutto ha un nome e che bisogna conoscere i nomi. Perfino le cose vogliono essere chiamate »(3). È, sì, il regno dell’infinita identità particolare (ogni centimetro ha la sua storia da raccontarsi, la sua vicissitudine nel tempo) ma, insieme, dell’eterna universalità, perché tutto, in essa, appartiene al mondo:«Ho visto che chi dice “Roma” intende ancora il mondo e la chiave della forza sono quattro lettere, S.P.Q.R. Chi conosce la formula, può chiudere i libri. La può leggere sullo stemma degli autobus che passano, sulla copertura dell’accesso a una fogna»(4). È il “segno dell’unica maestà che ha governato senza interruzioni” (4). Sul piano anzitutto umano, dunque, Roma è un’entità misterica e metafisica, numinosa come l’essere del mondo, che sta e va oltre gli elementi del suo costituirsi dalla e nella storia, del suo esistere nel tempo. Si va cioè al di là del fatto concreto o contingente che “il Tevere non è bello, ma trascurato nelle banchine, da dove spuntano rive a cui non c’è chi mette mano (…) Arbusti ed erba alta sono infangati, e sulle balaustre solitarie dormono immobili gli operai nella calura di mezzogiorno”; o che “la basilica di San Pietro sembra più piccola delle sue reali dimensioni e tuttavia è troppo grande (…) le grandi solennità si svolgono ancora chiassosamente, con balletti in porpora sotto baldacchini, e nelle nicchie l’oro sostituisce la cera. Chiesa granne divozzione poca”; o che “molte case assomigliano al Palazzo Cenci, dove la sventurata Beatrice visse prima della sua esecuzione. I prezzi sono alti e le tracce della barbarie dovunque”; che “nel ghetto non bisogna lodare il giorno prima della sera”; che “a Campo de’ Fiori Giordano Bruno continua a essere bruciato, ecc. (continua)
(1) I. Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma, Macerata, 2002, p. 9.
(2) Ivi, p. 10
(3) Ivi, p. 122.
(4) Ibidem.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento