Ingeborg Bachmann e Roma – 1
Per la celebre scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, nata e cresciuta a Klangefurt in Carinzia, l’Italia è stata sempre una seconda patria. Klangefurt, per altro, dista pochi chilometri dal confine. E Ingeborg parlava quasi perfettamente, senza alcun accento, la lingua italiana. Conosceva profondamente la politica, la letteratura, il cinema e la musica del nostro Paese. Si cimenterà anche nella traduzione delle poesie di Giuseppe Ungaretti.
Così, nella tarda estate del 1953, Ingeborg Bachmann obbedisce al richiamo delle ardenti luci meridionali. Abita inizialmente a Forio, Ischia, in una casa affittata dal compositore Hans Werner Henze, poi a Napoli, infine a Roma. Qui arriva con l’idea di soggiornare un paio di mesi, ma poi ci resta – tranne saltuari abbandoni – tutta la vita. Fino ad ammettere con se stessa, anni dopo, di non ricordarne o non saperne più il motivo. Un’attrazione fatale, benché libera da scontati processi di trasfigurazione estetica e culturale. La Bachmann è immune dal mito di Roma: sembra prescindere dal suo appeal metastorico, di apice e quintessenza dell’Occidente, per aprirsi alla visione della città nel suo aspetto reale e comune, lasciandosi coinvolgere dal caos e dal rumore del suo tessuto quotidiano, come stimoli al senso delle contraddizioni dell’esistenza, piuttosto che al bisogno opposto della contemplazione, del silenzio, dell’armonia pacificata. Affronta la Città Eterna, cioè, con un atteggiamento di vitale e dialettica complessità, non riduzionistico: il fascino di Roma sta nella sua capacità di collegare il vecchio e il nuovo in modo inafferrabile. È una città aperta e stratificata, che “mette in gioco tutti i tempi, uno contro l’altro, uno con l’altro”, per cui “il vecchio domani può essere nuovo e il nuovissimo vecchio” (I. Bachmann Quel che ho visto e udito a Roma, Macerata, 2002). Roma è il luogo spirituale dove l’esistenza può compiutamente ed emblematicamente manifestarsi all’Essere. Per questo alla Bachmann appare, tra le metropoli che conosce, come “l’ultima in cui si possa avere un sentimento di patria interiore”. Un luogo irrinunciabile, dunque, per chi voglia studiare l’Uomo e la Vita per scriverne, cioè salvarne frammenti da approfondire, in senso spirituale, linguistico, conoscitivo. Ingeborg – già mascotte del gruppo ’47, con i futuri premi Nobel Günter Grass e Heinrich Böll – fa parte di una piccola cerchia di scrittori di lingua tedesca residenti a Roma, che si incontra al Café Doney di via Veneto. Ma il cuore della sua esperienza romana va soprattutto cercato nell’attività di corrispondente che per un anno, dal 15 luglio 1954 al 9 giugno 1955, assicura alla stazione radiofonica di Brema. I pezzi vengono concordati con la redazione il lunedì e già l’indomani dettati per telefono dalla scrittrice. E i vaglia recapitati dalla radio al suo indirizzo di quei giorni (in piazza della Quercia) sono autentiche boccate d’ossigeno per Ingeborg che, navigando in acque non proprio floride, li accoglie con gioia e gratitudine straordinarie. Dietro lo pseudonimo Ruth Keller, la Bachmann scrive di argomenti fra i più disparati, dalle note di costume ai fatti di cronaca ai casi della vita politica. Lo fa con precisione, acutezza, intelligenza, senza nulla trascurare, poiché tutto sente importante e degno di nota, parte di un insieme generale. Anche il dettaglio all’apparenza più insignificante e quotidiano è per lei fibra di un tessuto storico e sociale superiore. Vede cioè le cose attraverso uno sguardo ‘esterno’, spregiudicato, che, dunque,Ingeborg Bachmann può permettersi maggiore obiettività. Con approccio fenomenico ed epistemico – di analisi e insieme di sintesi – alla materia di volta in volta affrontata. Ne esce uno spaccato a dir poco prezioso della vita italiana e romana degli anni Cinquanta. Si parla degli scioperi, che in Italia superano addirittura il numero delle festività. Oppure dei presunti tentativi di eversione da parte dei comunisti italiani, con conseguenti preoccupazioni americane, nonché democristiane filo-atlantiche. Oppure dell’elezione di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica (maggio 1955). L’opinione pubblica è preoccupata per la disoccupazione e per i prezzi che continuano a salire. Scopriamo una realtà meno distante – di quanto ipotizzabile – da quella odierna. Si legga ad esempio questo suo frammento dell’11 agosto 1954: “Considerati i prezzi e la tendenza sempre più spiccata dei locatari a costringere allo sgombero i vecchi inquilini con canoni bloccati bassissimi – considerato quindi che per i più anche gli affitti divoreranno, da adesso, un’alta percentuale del reddito, è un enigma come la maggior parte delle persone riesca a vivere”. Tra i casi di cronaca più scottanti e scabrosi predomina senza dubbio, per ricorrenza e spazio dedicatovi, il presunto omicidio di Wilma Montesi, la “bella romanina” trovata annegata sulla spiaggia di Capocotta nell’aprile 1953. Divenne uno scandalo di portata nazionale, oggetto di strumentalizzazioni politiche, essendo coinvolto, tra gli imputati, il figlio dell’allora ministro degli esteri Attilio Piccioni, che poi si dimise dall’incarico.
(Continua)
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento