Infermità mentale: interdizione e inabilitazione
Nel diritto civile italiano l’infermità mentale è presupposto esclusivo dell’interdizione e causa principale dell’inabilitazione. L’art. 414 c.c., per quanto riguarda l’interdizione, richiama l’infermità di mente che rende il soggetto incapace di provvedere ai propri interessi, mentre l’art. 415 c.c. – sull’inabilitazione – si riferisce al soggetto il cui stato di infermità mentale non sia “talmente grave” da dar luogo all’interdizione.
Si afferma innanzitutto che non è necessario che le alterazioni psichiche, da qualunque causa determinate, si manifestino in forme patologiche clinicamente definite, essendo sufficiente che sussista una alterazione delle facoltà mentali. Sotto il profilo quantitativo la gravità dell’alienazione varia a seconda del tipo di provvedimento che deve essere pronunciato, pur occorrendo sempre un considerevole grado di intensità. Così, per l’interdizione, non è richiesto che l’alterazione mentale comporti “un completo sconvolgimento intellettuale o uno stato di assoluta imbecillità o demenza”, sopprimendo totalmente le facoltà di intendere e di volere, ma è sufficiente che siano gravemente compromesse. Quanto all’inabilitazione, l’infermità mentale si deve concretizzare in una situazione che riveli una non gravissima debolezza delle facoltà intellettive e volitive, tale, comunque, da porre chi ne è affetto in uno stato di – sia pur parziale – incapacità di aver cura di sé e dei propri affari. La differenza rispetto al presupposto dell’interdizione sta quindi solo nella minore gravità dell’infermità. In questa prospettiva un comportamento abnorme connesso all’età senile, all’ignoranza ovvero alla mancanza di attitudine e al disinteresse per la buona amministrazione di una attività commerciale non può integrare il presupposto richiesto per la pronuncia del provvedimento di inabilitazione. Emerge, a questo punto, con chiarezza come il parametro alla cui stregua valutare, ai fini dell’applicazione degli artt. 414 e 415 c.c., l’esistenza e l’intensità dell’infermità mentale sia rappresentato dalla inettitudine pratica a provvedere alla cura dei propri interessi. Con ciò, si intende far riferimento, per l’interdizione, a “tutto il complesso delle attività umane nelle sue espressioni apprezzabili dal punto di vista dell’ordinamento giuridico e delle quali al maggiore di età è attribuita la capacità di esercizio”, riconoscendo all’espressione “interessi” un significato molto ampio, poiché ad essa si riconducono non solo gli affari di natura economica e patrimoniale, ma anche gli atti della vita civile che attengono all’adempimento dei doveri familiari e pubblici e la cura della persona. Diversamente per l’inabilitazione, per cui la giurisprudenza ritiene che gli interessi alla cui cura la persona deve essere in grado di provvedere siano esclusivamente quelli patrimoniali, o meglio, quelli relativi alle attività di straordinaria amministrazione. L’esistenza di una malattia mentale, pur essendo condicio sine qua non per la pronuncia di un provvedimento che, in qualsiasi modo, incida sulla capacità di agire, non è, tuttavia, di per se stessa ancora sufficiente: occorre infatti che tale infermità presenti certe caratteristiche, espressamente indicate dall’art. 414 c.c. per l’interdizione e consistenti nell’abitualità e nell’attualità dello stato patologico. Sotto il profilo dell’abitualità si nega rilevanza ad episodi occasionali ed intermittenti, richiedendosi al contrario uno stato patologico durevole nel tempo anche se non continuo ed irreversibile. Mentre attualità significa esistenza della causa di interdizione e inabilitazione non solo al momento dell’instaurazione del relativo giudizio, bensì anche durante tutto il procedimento, fino alla pronuncia di accertamento delle condizioni mentali del soggetto. Tra le condizioni che rendono possibile l’inabilitazione figurano, oltre ad una infermità abituale di grado minore, anche l’ipotesi della prodigalità, della tossicomania, della cecità e del sordomutismo dalla nascita in chi non sia stato adeguatamente educato. Il testamento, per esempio, può essere impugnato da chi vi abbia interesse se chi lo redasse era incapace perché, sebbene non interdetto, nel momento in cui testò era per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere.
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