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Nei quadri di Giovanna si nota subito il passaggio dalla tecnica in cui il colore è denso, compatto quasi uniforme, ai quadri dipinti con colori dai toni soffusi, simili a nebbie che lasciano intravedere ora i lineamenti di una donna ora paesaggi incantati.
Mi avvicino a Giovanna e le chiedo: quando hai iniziato a dipingere?«Ero al penultimo anno della frequenza dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, nel 1986, nella sezione scenografia, ed ho iniziato ad usare l’acquarello per alcuni bozzetti; l’amore per questa tecnica pittorica mi ha catturata e da allora non ho mai spesso di dipingere».
Da quali pittori sei stata maggiormente influenzata?«La mia attenzione si è soffermata su Chagall, Turner, Kandisky, Klee, ma non solo».
Nella tua pittura si assiste ad una ricerca interiore, qual è il messaggio che la tua arte vuole esprimere? «Ciò che intendo comunicare è il mio amore per la natura. A volte si tratta di una visione onirica, stimolata dal mondo dell’illustrazione, come quelle dello scenografo Emanuele Luzzati, altre dalla musica, dalla luce, soprattutto quella del giorno che utilizzo per i quadri che dipingo, quando è possibile, all’aria aperta, nella speranza di trasmettere serenità e gioia a chi guarda le mie pitture. Per la mia ricerca interiore mi sono stati di grande utilità la frequentazione dello yoga, l’ascolto di musica indiana, la lettura di alcuni libri come L’anima del mondo e il pensiero del cuore di James Hillman, I diari di Paul Klee, Siddarta di Herman Hesse, Tagore, alcuni film e foto dei luoghi e i colori del chakra; poi ho cancellato tutto, proprio come quando si distrugge un mandala, e sono andata in profondità, guidata dalla musica, attingendo alla mia interiorità, e ho lasciato fluire i colori con l’acqua e il pennello sulla carta, tirando fuori le forme dell’anima. Devo ringraziare il grande Elio Mercuri che mi ha guidato in questo percorso per realizzare questo incontro di anime sfociato in una mostra».
Paola è emozionata; le foto le ricordano il viaggio in India, la sua guida spirituale, recentemente scomparsa, la cui presenza è tuttavia avvertita dalla fotografa durante l’esposizione.
Da quanto tempo ti dedichi alla fotografia? «Tutto è iniziato nell’85, quando per lavoro mi trovavo a New York ed è proprio lì che acquistai la mia piccola Canon autofocus. Mi servì per immortalare questa mitica città e mostrarla al rientro ai miei familiari».
Il tuo obbiettivo fotografico è incessantemente alla ricerca di volti, piccole attività quotidiane, particolari quasi insignificanti che rendono preziosa la foto, come a voler penetrare nella vita di questo popolo. «Il mio viaggio all’inizio doveva essere solo turistico, poi si è trasformato in un cammino verso l’anima, verso una dimensione di me che non conoscevo, e che l’incontro con l’India mi ha permesso di scoprire. È avvenuto tutto a poco a poco, prima l’incontro con il mio Maestro, con il quale ho iniziato a praticare yoga e meditazione, in seguito l’approccio con la gente, le loro attività, la vita quotidiana, la scoperta della loro spiritualità. Ogni cosa si imprimeva in me toccandomi nel profondo e lasciando un segno indelebile. L’India o la ami o la odi, ed io l’ho amata subito, anche se molti dei suoi aspetti all’inizio mi spaventavano. Ogni cosa che ho visto, ogni persona o luogo da me visitato hanno permesso l’aprirsi di una porta del mio Viaggio nell’Anima».
Puoi descrivere un’emozione legata al tuo viaggio? «Non dimenticherò mai la profondità degli sguardi di bambini storpi o menomati mentalmente che ho incontrato in una casa di Madre Teresa a Mumbay; ogni volta che lasciavo quell’ambiente, sul taxi che mi riportava alla mia abitazione, piangevo per il vuoto che mi lasciavano dentro. Occhi infiniti e profondi che parlavano in corpicini deformati, occhi che esprimevano un infinito amore. È stata una grande emozione!».