In ricordo di Michele Coiro
Ricordo il giorno della sua scomparsa, le parole scritte alla sua famiglia, gli attestati di stima, la gratitudine per quest’uomo mite e forte davvero.
Il suo insediamento al Ministero non durò molto, ebbi però la fortuna di conoscere la sua grande umanità e giustezza, due valori non sempre perseguibili nell’amministrare il mondo carcerario italiano, non sempre raggiungibili all’interno di una cella.
Michele Coiro ex Procuratore Generale del Tribunale di Roma, poi divenuto Direttore Generale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, sebbene desse l’impressione di non essere del tutto “scafato”, dei gangli e dei meccanismi obliqui dell’apparato penitenziario, mostrava apertamente lo stupore per tanta conservazione ideologica, e allo stesso tempo affermava con la sua proverbiale risolutezza l’intendimento a voler riconsegnare al carcere strumento e funzione di salvaguardia della collettività, ma anche investire risorse per fare realmente promozione umana, emancipazione e cambiamento, affinché il carcere fosse interpretato diversamente dal solito contenitore di numeri, e l’uomo detenuto fosse posto nella condizione di attuare una seria revisione critica del proprio passato.
Ho conosciuto personalmente il Prof. Michele Coiro durante una trasmissione televisiva a Roma: come sua abitudine affrontò le problematiche carcerarie con la formula del dubbio, dell’interrogativo, dell’uomo che avanza in un’area disseminata di nuovi stadi di disagio, con lo stupore di chi apprende e la sagacia di chi vuole intervenire incisivamente.
Cercò di costruire cultura vera dell’affettività in carcere, convintamene pensava a una pena certa, ma flessibile perché veramente rieducativa, a madri e bambini non più dietro le sbarre, con un’attenzione sensibile che non voleva dire accudente, verso i più esposti e fragili, destinati al suicidio.
Rammento ancora una frase di quest’uomo mentre dibattevamo sulla possibilità di vivere e convivere con la speranza anche dentro un carcere: Lei Andraous è un caso emblematico.
Si riferiva alla mia lunga condanna e carcerazione, nonché alla sua consapevolezza che venti o trenta anni di carcere cambiano profondamente le persone, se accompagnate in un cammino di confronto e di relazioni importanti, le quali obbligatoriamente non consentono più di barare con se stessi, né con gli altri.
In questo presente dove la questione sicurezza è brandita come una clava, ricordare uomini e riferimenti certi come Coiro, significa affermare che la sua sfida, iniziata e non portata a termine per cause indipendenti dalla sua volontà, appartiene a quanti credono nelle riforme, e nelle riforme sul carcere, è sfida a informare correttamente e onestamente l’opinione pubblica, è sfida a fare, perché del dire e del promettere è stanco perfino Gesù su quella croce.
E’ sfida per chi, come il detenuto, ha molto da farsi perdonare, e assai di più da farsi finalmente avanti con nuovi gesti quotidiani, non solo per dire grazie agli uomini come Michele Coiro, ma per fare grazie sull’esempio di quest’uomo che è stato davvero giusto.
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