In ricordo di Fabrizio De Andrè
Caro Gesù stasera voglio parlarti di un tuo figlio, uno di quelli lontani, uno di quelli che sono rimasti sempre là, dove si tributa onore al padre, amore alla madre, fede negli uomini e nelle loro capacità. Voglio parlarti di uno di quelli che scriveva e cantava a molti, a tanti, forse per nessuno, o forse solo per se stesso, per me, anche per te. Uno di quelli che viene additato e poi concluso in un saluto senza troppe pretese, giudicato e messo di lato, senza conoscerne ideali e sentimenti e passioni. Uno di quelli liberi dentro, come il suo cane, Libero di nome e di fatto, negli occhi che non conoscono pause, curiosi come te, che non manchi mai di guardare dove gli occhi si chiudono per lo sfinimento. Voglio parlartene perchè da tempo ho disconosciuto il senso di quest’uomo, ho solamente contribuito a rafforzarne il mito, una verità di comodo, un’affermazione di sollievo per le mie rese e le mie sconfitte, un moto di rabbia per quel che non ho, usandone maldestramente le parole, i suoni, le stesse inattaccabili speranze. Voglio parlarti di questo tuo figlio ribelle, nella stalla a pensare, nella cantina a bere vino, nella vita a spalancare la porta a una imprecazione, uno di quelli che non accetta di tradire, uno dei tuoi figli grandi per cuore e per generosità, uno di quelli veri fino in fondo, per ciò che hanno lasciato in eredità, nei segni incerti sulla carta che incontrano lo sguardo Alto, uno di quelli che sta sulla Croce senza neppure accorgersene, ma che non lascia scampo all’anima più nera, a quella meno onesta. Voglio parlarti di questo tuo figlio, nato contro, nato di lato agli inganni, alle trappole degli invidiosi, di quanti non hanno voluto rispettarlo, e stimarlo, uno di quelli dalla sofferenza nella carne, del pessimismo con spessore, della storia che non racconta giorni sognati, uno di quelli preso a botte, portato via, rilasciato più vecchio nella barba, ritornato meglio ancora della vita che gli è stata rubata. Caro Gesù voglio parlarti di questo tuo figlio, malcelato verso le conformità fittizie, quelle senza tradizioni, culture, uno di quelli che non hanno voglia di mostrarsi, di mettersi in fila e attendere un commiato, una commozione di rimando a una tragedia consumata lentamente. Uno di quelli con i palmi delle mani aperte, con il corpo esile a difendere un’idea, uno di quelli che ci ha sempre creduto, che non ha mai smesso un istante di credere di migliorare il mondo, attraverso una nota nascosta nelle tasche vuote, uno di quelli che forse non ti ha mai creduto, ma ti ha dato il fianco nudo. Uno di quelli che non ha stentato di fronte al pericolo di parlare dei vinti, degli sconfitti, dei ladri e degli assassini, ne ha parlato con il dolore delle vittime inascoltate, con il coraggio di chi non teme di rimanere indietro. Come te caro Gesù, non ha mai sperperato buone parole, immensi sentimenti, da te ha imparato a non credere a una realtà sognata, ma a una libertà di tutti i giorni, nei gesti quotidiani ripetuti, al fare e all’agire nel rispetto della dignità di ciascuno. Caro Gesù, ho voluto parlarti di uno di noi, uno di quelli andato via giovane, ma rimasto lì, come una preghiera che non stanca mai, che muove le labbra, spinge in avanti le gambe, per un po’ di pietà sincera.
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