In punta di cuore – La donna e il suo lamento sociale
Ivana Uras, donna impegnata nel campo della scuola come Dirigente Scolastico al Liceo Newton di Roma, si cimenta in questa silloge poetica dal tono lirico. In punta di cuore, Edizioni Controluce, in realtà è una meditazione sul ruolo sociale della donna moderna uscita dalle pareti domestiche per immergersi nel mondo lavorativo esterno. Se prima aveva vestito gli abiti dell’angelo del focolare, ora arriva a trovarsi catapultata nel lavoro dove è ridotta a essere un uomo in gonnella. Non c’è più spazio per la tenerezza e l’amore: una donna libera non è disponibile a sottomettersi e quindi non riceve più da parte del maschio le attenzioni di una volta.
Eppure siamo noi donne stesse che abbiamo voluto questa liberazione. Ci deve essere stato un errore compiuto nella modalità attraverso cui è stata ottenuta questa libertà, ammesso che l’attuale condizione della donna si possa realmente definire libera e paritaria. Questa è una strada di solitudine che la donna sceglie con consapevolezza, come emerge in Diario di bordo: «Conosco la rotta / tra burrasche quotidiane: / guidare con coraggio, / sicurezza, tremare mai. / Ma il mio / è un pianto intimo /disperato e solo».
Eppure c’è la consapevolezza di aver perso qualcosa di importante: «Carichi d’impegni / si gettano via / squarci essenziali di vita…» (Distrazione).
Forse la nostra società moderna del tutto aperta non è. E anche le donne di prestigio e di cultura, nelle loro scelte di vita, hanno dovuto rinunciare a qualcosa, come nella lirica Donne: «Olocausto di vita / già programmata. / Binario stabilito / di dono e schiavitù. / Ogni desiderio è peccato, / ogni gesto è giudicato, / ogni scelta: a condizione / altrimenti è persecuzione. / Tra le pareti, tra le stanze, / tra gli uffici, tra le chiese / se gioisci sei egoista / ma se travalichi (oltre il comune sentire) / devi pagare / e conservare l’equilibrio / anche tra torri gemelle».
Lo sguardo della donna è disincantato, vorrebbe vivere la vita come fosse una fiaba ma c’è un timore sotteso nel discorso: «…purché l’elfo non diventi un rospo / come tutti gli altri…» (Dopo la fiaba).
Ogni tanto la Uras vorrebbe perdersi nella bellezza dei ricordi del passato: «Le faville del cammino, / testimoni del calore / d’altri tempi…» (Focolare). E in questi momenti è evidente la sua nostalgia, ma subito dopo lancia il suo urlo di dolore disperato: «…Tra i petali di trepido / amore agognato / e mai rivelato / infinitamente sofferto / sfacciatamente negato…» (Frammenti di speciale).
Un urlo che diventa rassegnazione consapevole, come in questa breve ma intensa poesia intitolata Giorni uguali: «Tutti i giorni / gli stessi sorrisi mancati / le stesse parole non dette / le stesse carezze non fatte. / L’abitudine non è noia / è solitudine».
E si interroga, la poetessa, su questa vita passata dietro alla banalità quotidiana. Del resto l’alternativa a questa non-vita non può essere la carriera. Cosa succede infatti, nella poesia Il Presidente? «…E da burattinaio / sarà marionetta…».
Eppure un tempo l’amore era il valore a cui credere: «…incamminavo emozioni d’amore / fiduciosa della tua rete…» (L’equilibrista).
Un valore di certo deluso: «…Non sapevo che costruivi solo / ragnatele di ghiaccio» (L’equilibrista).
E allora nasce la voglia di prendere la valigia e partire: «…lontana / persa tra tramonti ed orizzonti» (La valigia).
Ma la disillusione più insopportabile arriva dal sogno più disatteso, dall’illusione più grande di ogni donna, che diventa il più forte dolore quando giunge la consapevolezza che la vita non è una fiaba e che il principe e la principessa non vissero felici e contenti. Ecco quindi la crudeltà della realtà in Matrimonio: «Un bacio la mattina / un bacio la sera. / La vita in mezzo / scorre in parallelo. / Condivisione di tavolo, letto, spese. / Conviventi, / non compagni».
Dopo la disillusione arriva, però, un sentimento di rabbia pur celato sotto la scorza dell’apparente rassegnazione e dolcezza come si legge in Memento: «…L’assenza di me / potrebbe bruciarti / come la peggior vendetta».
E con la rabbia giunge un tentativo di reazione in Non sono Ivanka: «Non lasciarmi sciogliere / tra le tue mani / come grandine. / Non chiudermi tra le celle di ghiaccio. / Non sono Ivanka, / maldestro artigiano del vetro. / È il fuoco / che mi dà forma».
La donna sacrificata da anni di intollerabile schiavitù alla fine non può che rompere gli argini e andare per la sua strada ignorando l’incapacità maschile di riprogrammare ogni rapporto. Questo atteggiamento è comunque una sconfitta: non basta ignorare, ma forse sarebbe più costruttivo porsi delle domande tra diversi, far comprendere le proprie ragioni all’altro sesso. Ed ecco la ferita insanguinata della donna fa emergere la domanda lacerante: «Dio mio, perché non apri gli occhi? / Fuori della porta di casa / anche il soffrire è più leggero» (Pane quotidiano).
La pesantezza del matrimonio, di un rapporto di coppia mancato che scolora nell’abitudine senza il coraggio di una rottura e senza il tentativo di una trasformazione per provare una crescita insieme, non è soltanto insopportabile ma rappresenta una stasi che coinvolge tutta l’esistenza.
La Uras mette in rilievo, come una verità universale, l’incomunicabilità che spesso si crea tra un uomo e una donna incalzando il presunto compagno, o convivente, o maschio sprezzante con queste parole: «…Tu a due passi sei lontano, / tu lontano sei sbiadito, / tu saresti, ma non sei» (Presente, passato e futuro).
Ma la vita è fatta anche di questo, un altalenarsi di emozioni, di gioie e dolori, di rabbie e vendette, di cose non dette, di verità urlate. Nella poesia che dà il titola alla raccolta sono Riflessi in punta di cuore: «…un’altalena / parossistica / di sistole / un ritorno di diastole / sincopate di gioie e di dolori».
E nel finale c’è una bellissima immagine che prende in prestito le parole dalla società del consumo: «…Ma il tuo amore / come i prodotti del supermercato / aveva una data di scadenza. / Peccato» (Scadenza).
Da tutto questo, dalla fatica della vita, dalle delusioni, dai dolori, dall’incapacità di trasformare le emozioni, dalla noia, dall’abbandono, occorre riposarsi, quasi che solo la morte possa donare, finalmente, pace e sollievo: «…Un sonno ristoratore / ci vorrebbe / risolutore estremo / di qui all’eternità» (Sonno).
Perché la vita è ineluttabile e alla fine tutto deve morire: «…un dio da pregare / una bara da occupare / e / un fiore da seccare» (Verbi del destino).
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