In ‘Bella addormentata’ la ragione non dorme
Nel pugno di giorni conclusivi la vicenda di Eluana Englaro presso La Quiete di Udine, Bellocchio mette in scena un pezzo della complessa realtà italiana e non solo. Inutile raccontare le storie che si svolgono in contemporanea davanti ai nostri occhi con i loro contenuti di dramma, passione improvvisa, odi freddi cucinati con lentezza. Il film conta, sembrerebbe, sulla giustapposizione di queste vicende per provocare la reazione del pubblico che non si fa attendere.
Durante la proiezione è facile ascoltare chi geme, o inveisce o manda maledizioni contro quello o quell’altro personaggio della politica, capi gruppo, veterani ricostruiti in un catalogo esemplare da due colonne, fra gli altri, del nostro cinema e teatro nazionale come Toni Servillo e Roberto Herlitzka. Sullo schermo sfilano bellissime presenze fra cui Isabelle Huppert e Maya Sansa, disetanee e mature espressioni di consapevolezza; i giovani Michele Riondino (televisivo giovane/Montalbano) e Brenno Placido, figlio di Michele. Lo sguardo misticheggiante di Alba Rohrwacher, e gli occhi intensi e indagatori del regista presenti anche in scena, attraverso il figlio Pier Giorgio: l’umano medico Pallido che, fra tutti, ci ricorda quanto la pietà sbandierata per la morte di una donna per molti già morta 17 anni prima, non faccia il paio con la accettazione, almeno quella, richiesta per tanti morti viventi (che non sanno di esserlo, forse i tossicodipendenti?) che ogni giorno popolano strade o astanterie, nel migliore dei casi, in questo nostro cieco Pese. Pallido è uno che sa distinguere, ci prova seriamente, altri saprebbero distinguere, ma non gli conviene e non lo fanno. Meglio andare a vedere il film un po’ scoraggiati dalle polemiche del dopo Festival veneziano e quasi disillusi su quello che un film condannato dalla cronaca e di cui si conosce (o si crede di conoscere) il finale, potrebbe mostrare. Recandosi a vederlo con questo stato d’animo il primo quarto d’ora avrà un effetto più deflagrante per lo stomaco e i nervi. Così presi dal pathos e ormai consapevoli di quanto la vicenda riguardi davvero tutti noi, i seguenti 90 minuti scorreranno perfettamente. Le immagini dello splendore della vita, richiamate già dai bravi attori, sono rese insostituibili dalla perfetta elegante, senza essere patinata, messa in scena. Sono vita anche le sequenze di grassi e teneri ippopotami che nuotano sul fondo di un fiume; la vita che c’è, la vita che è corrispondenza, ognuno potrà aiutarsi a valutarne i termini in cui la intende, forse anche aiutato dalle splendide e immobili fattezze di Rosa, scesa da un quadro rinascimentale, amata fino alle stille dell’odio, da chi l’ha messa al mondo e non sa perdonarsi di non essere al suo posto. Bello, ma forse non degno di premi proprio per la missione che si propone: nel film appaiono simboli che la giuria della biennale del cinema potrebbe non aver voluto rischiare di evidenziare attraverso un premio. Gli stessi simboli che in un momento storico mondiale tanto drammatico e complesso muovono alla guerra nel vicino Oriente. Le immagini possono contribuire a renderci più liberi, il processo però, semmai approderà a qualche risultato, è ancora lungo.
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