Il vuoto parlar filosofico – (II parte)
I filosofi sermocinali, per la loro ‘idolatria’ della parola, potrebbero essere scambiati, da qualcuno, per letterati, ma in realtà non lo sono, perché il vero letterato ha troppo rispetto per la parola, sa che è ‘criminale’ farne un cattivo uso, e abusarne è come abusare di una donna non consenziente. Il ‘toscanaccio’ Giosuè Carducci, poeta e letterato sommo, di temperamento ‘sanguigno’, riteneva degno di uccidere chi, con dieci parole, esprimeva ciò per cui ne erano sufficienti due! E la poesia, la grande poesia lo insegna. Il grande poeta è colui che con due parole riesce a spalancare le porte di un mondo d’emozioni e sentimenti, laddove un uomo qualunque non vi riuscirebbe con mille parole.
“Ognuno sta solo
sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.”
Ma chi riuscirebbe a dire più di quanto inondano d’immagini interiori, di sensazioni, di riflessioni, di ricordi, questi brevissimi e ispirati versi di Salvatore Quasimodo? Le parole hanno una loro sacralità che bisogna rispettare. Dobbiamo usarle con discrezione, non spararle al vento, l’una dopo l’altra, come bolle di sapone, per il puro gusto esibizionistico di fare effetto sugli altri con verbali fuochi d’artificio. Questa non è comunicazione, ma soltanto scadente pubblicità di sé. Far filosofia dovrebbe rispondere all’esigenza “di semplificare, di chiarire, non di gravare il discorso di significati astrusi”[5], osservava acutamente Bruno de Finetti. Per riuscirvi, non bisogna farsi travolgere dal gusto della scorribanda verbale, ma dall’unico desiderio assillante di ricercare la verità (anche se la ‘propria’ verità e non la verità assoluta che probabilmente non esiste) con chiarezza, semplicità, rigore, preoccupandosi d’accompagnare per mano, in tale cammino, anche gli altri, altrimenti è solo un viaggio nella solitudine del proprio pensiero e del proprio immaginario.
I miti, le credenze del passato non devono essere, tuttavia, derisi e nemmeno dimenticati, perché sono la ‘scienza’ dei tempi antichi, sono quanto di meglio l’intelligenza e la fantasia dell’uomo di allora potevano creare, fanno parte della storia della conoscenza dell’uomo, che è giusto conoscere per capire quel che siamo attualmente. Ma occorre anche accettare che oggi sono declassati come spiegazione del mondo, in virtù di quell’irrinunciabile principio filosofico che, volenti o nolenti, ha contraddistinto, di fatto, il progresso dell’umana conoscenza, il relativismo del sapere: ciò che ieri era scienza oggi non lo è più, o lo è in maniera imperfetta, e ciò che oggi è scienza domani non lo sarà più, o lo sarà in maniera imperfetta.
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[5] Bruno de Finetti – L’adozione della concezione soggettivistica come condizione necessaria e sufficiente per dissipare secolari pseudoproblemi. In: “I fondamenti del Calcolo delle Probabilità”. Atti della Tavola Rotonda a Poppi 11,12 giugno 1966
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