Il tesoro di Sandokan
Il richiamo ad un personaggio leggendario come l’eroe salgariano, di primo acchito dovrebbe fornirci tutta una serie di elementi che giustificano l’analogia, l’evocazione di un tipo umano che trascende la realtà stessa e lo colloca nel regno del mito, come appunto viene rappresentato l’eroe nel suo stagliarsi dal corpus dell’umano, un gigante senza contraddizioni su cui si proiettano i desideri e le ambizioni del quotidiano. Anche nella storiografia spesso rimbalza questa naturale vocazione dell’uomo a rappresentare gli attori della storia come personaggi assoluti, raffigurati spesso, secondo una logica binaria o bipolare, personaggi che si ergono al di sopra dello strato corruttibile dell’uomo, fatto di carne, sangue, sudore, malattie, meschinità, volgari ambizioni e finalità del tutto terrene. Ecco come l’immagine tradisce la sostanza, il corpo fisico viene sostituito dall’incorporeo metafisico ed entra nell’immaginario collettivo, spurgato da ogni fattezza umana.
Ci sono storie mitiche cosiddette dormienti, che fino al momento in cui qualcuno non le ridesta dal lungo sonno al quale sono state destinate, non generano rappresentazioni degne di essere condivise, ci sono storie che sono veri e propri fenomeni che si generano in particolari contesti locali, che sembrano non interessare nessuno e che improvvisamente assurgono agli onori delle cronache, quando si sono trasformate in un complesso intreccio di legami tra finanza, politica e malavita organizzata, sono storie alimentate dal mito della terra; del capo branco, di una tribù autoreferenziale a cui la legge non la impone nessuno se non chi è stato partorito da quella terra.
Questa è la storia di Sandokan, “contronome” o soprannome di Francesco Schiavone, boss del clan dei Casalesi, ora recluso in un supercarcere in regime di 41/bis o meglio, questa è la storia di una terra da sempre dominata dall’unico potere stratificatosi nei secoli. Gli “eroi” di questa vicenda, semisconosciuti fino all’esordio editoriale di Gomorra, sono personaggi in cui spesso intere generazioni si sono identificate e ne hanno condiviso la cultura di morte, senza tra l’altro sperimentare alcuna alternativa e chi, con atti di estremo coraggio, ha intravisto un percorso possibile al di fuori di quella logica, è morto oppure è dovuto emigrare. Ma dove si trova questo non luogo dove regna la sopraffazione dei clan, dove si producono eroi che hanno la barba di Sandokan e la virulenza di Scarface? Ma in Italia, signori, in Italia, nella terra dei Mazzoni o anche Terra di lavoro oppure come la chiamavano gli antichi romani: “Campania felix“.
Solo dopo che Roberto Saviano ne ha squarciato il velo d’oblio che lo occultava, si è cominciato a focalizzare l’attenzione della grande massa su quei territori e su quelle vicende che hanno un’origine lontana. Addirittura, subito dopo l’impresa dei Mille, in quella regione vi erano due deputati, Romano e Rosano che erano non solo contigui alla camorra contadina ma organici a tutti gli effetti. Come i campieri in Sicilia, delegati dai Signori dei feudi, a questi uomini fu data ampia delega per mantenere l’ordine pubblico e quindi tanto potere da diventare un contropotere assoluto. Un’inchiesta di inizio Novecento, di Oreste Bordiga, rivela che”All’interno delle aziende casearie “la selvaggia tribù” dei bufalari impone ai fittavoli la scelta del personale e allontana i concorrenti dagli affitti dei terreni”. Solo il fascismo, che non ammetteva alcuna mediazione con altri poteri che non fossero quelli del Duce, attraverso il prefetto Anceschi, avviò un’azione repressiva analoga a quella del prefetto Mori in Sicilia. L’analogia con i “colleghi” corleonesi si dipana attraverso la mentalità “villana” mai capace di emanciparsi da un impianto ideologico culturale strettamente legato alla “robba”. Nei racconti di chi viveva nei paesi limitrofi a Casal di Principe spesso veniva ricordato che il padrino di battesimo, come imprimatur d’onore, donava al pargolo, invece che una catenina d’oro, un bel revolver, con il quale veniva sancita la sua appartenenza alla “Società del rispetto”.
Quando invece negli anni ‘70 la NCO, la Nuova Camorra Organizzata di Don Raffaele Cutolo, detto “‘O Prufessore”, per una sua anodina saggezza nonchè per il suo aspetto mite, decise di costituirsi in un vero e proprio clan omogeneo, stratificando i suoi interessi su tutto il territorio napoletano, gli unici che riuscirono a contrastare lo strapotere della NCO furono proprio i casalesi, che organizzarono un trust con i clan Nuvoletta e Gionta, denominato Nuova Famiglia che a loro volta si collegarono con i Corleonesi per far fronte allo strapotere cutoliano. E fu così che negli anni ‘80 dopo alterne stragi, fu proprio il casalese Antonio Bardellino a imporre la leadership su tutta l’organizzazione e per dare un’idea di quale fosse la pasta umana del mito Bardellino ricordo le parole che spese Nuvoletta a proposito “a lui ci si deve rivolgere con massima attenzione [..] facendoci notare una cosa, ma mai giudicando un suo intervento“. La sua figura leggendaria aleggiava nelle parole:”Io appartengo a Bardellino” e nelle azioni di guerra direttamente eseguite da lui e dai suoi fedeli paesani.
Il mito Bardellino a Casal di Principe sopravvive ancora, tanto che si pensa non sia mai veramente morto e che viva in Brasile, come il mito di Sandokan – Schiavone, sempre ritenuto il capo assoluto della tribù dei casalesi, tribù che non ha mai perso una guerra pur cambiando strategia e comandanti, e che per la sua peculiare costituzione identitaria ha saputo guardare al proprio interno rilanciando l’azione anche attraverso la non indifferente capacità “mitopoietica” la quale sublima la debolezza del diritto in quelle terre. È questo il tesoro di Sandokan, la rinuncia sistematica dello Stato alla propria prerogativa fondante, il bene di ognuno.
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