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Il tempo della memoria 2

Maggio 01
02:00 2008

La ricorrenza del 25 aprile come ogni anno riapre il sipario sulla Liberazione e la Resistenza, innescando anche il consueto ventaglio di polemiche sulla effettiva consistenza e valenza di quella. Ultima la provocatoria proposta di Gustavo Selva di abolire la festa nazionale in quanto”viene attribuito alla Resistenza e alla vittoria dei partigiani un merito che non c’è stato” poiché l’attività dei partigiani sarebbe emersa solo dopo il 25 aprile, momento che non avrebbe “creato unità nel popolo italiano ma è sempre stato motivo di divisione”. In realtà, qui come per l’Olocausto, coll’allontanarsi degli eventi nel tempo e la ineluttabile scomparsa biologica dei testimoni (contro cui poco giova ‘arruolare’ bambini tra le fila dei partigiani), si pone per alcuni il problema di salvare una memoria emozionale, di mantenere cioè il calore della partecipazione emotiva per eventi che ormai, inevitabilmente sono entrati nell’”aula fredda della storia”. Eventi di tale eccezionalità e impatto sulle coscienze comuni da aver aperto quasi un ‘buco’ nel fluire uniforme di quella. Diverse sonodunque le questioni che possiamo porsi ogni volta che affrontiamo il tema della ‘memoria’: 1) perché si avverte la necessità di conservare ‘più viva’ questa memoria; 2)è davvero necessario mantenerla in questa forma; 3) se sì, come mantenerla.
Qui cercheremo di rispondere alla prima domanda. Di fronte alla realtà di una storia fatta sempre anche di guerre e di orrori, se ne acquisisce in genere (più o meno dolorosamente) la testimonianza, percependo quelli come in qualche modo ‘organici’ ad un sistema di convivenza cosiddetto ‘civile’, compiuti cioè da uomini in divisa contro altri uomini in divisa, o sia pure contro obiettivi civili e inermi, ma sempre in nome di una ‘condotta di guerra’ che vede una società civile legalizzare per un tempo limitato e a certe condizioni la deliberata trasgressione alle sue regole. Che nel linguaggio comune suona “A la guerre comme à la guerre”. Perché dunque ci fa inorridire quanto avvenuto nel cuore della civilissima Europa nel ‘progredito’ XX secolo? E perchè ci turba più profondamente di quanto non riesca a farlo il massacro degli Indios ad opera dei conquistatore o quello che si consuma ciclicamente nei paesi dell’Africa? Lontananza spaziale o temporale di quei fatti – si potrebbe rispondere, cercando ‘ammortizzatori’ della coscienza. Ma la risposta non ci soddisfa perché sappiamo che la risposta è un’altra: è che in questo caso la nostra civiltà si è temporaneamente eclissata o non ha elevato sufficienti, stabili barriere per difendere l’uomo da se stesso, dal male che è dentro di lui, e quindi nel corpo complessivo della società. Male che di regola è assopito nella nostra coscienza tanto che le sue manifestazioni ‘individuali’ e occasionali non bastano a riportalo in vita nella memoria collettiva. Proprio come le ‘bolle’ e gli sfiatatoi che si aprono in una solfatara non danno allo spettatore ignaro la dimensione reale del pericolo e dell’incombere di una spaventosa eruzione. Dunque, di quello che è avvenuto in Germania oltre 60 anni fa ci spaventano i ‘numeri’ o piuttosto la ‘qualità’ dell’orrore? O forse la connivenza di tanti ‘onesti cittadini’? Sopra ogni cosa ci spaventa di essere stati messi di fronte alla realtà del male ritrovato dentro di noi. Da ciò lo stupore di fronte a quella che Hannah Arendt chiama la “banalità del male”. Credevamo, ci avevano insegnato che il male fosse un mostro orrido in agguato e che apocalittici segnali avrebbero preceduto la sua manifestazione. Invece era proprio lì, accucciato come un felino, silenzioso prima di avventarsi. E tanto ‘naturale’ che un’intera società poteva condividerlo senza vergognarsene. Odiamo il nazismo per averci messo di fronte alla constatazione di quanto l’uomo, tutti noi uomini, portiamo dentro come ‘dotazione’ originaria e ineliminabile, insita nella ‘fisiologia ‘ umana quanto il dolore è indispensabile per segnalare un danno organico, e quindi perfino ‘positivo’ o iscritto in una ‘logica provvidenziale’, come Manzoni razionalizzava la “provvida sventura”. Insomma, Caino e Abele, dall’inizio e per sempre. Il nazismo, con la sua ansia di perfezione e delirio di efficienza non ha fatto altro che tentare di vollenden “portare a compimento”una realtà imperfetta, quella rappresentata nella favola antica di un’umanità che distrugge la sua parte debole. Ma se questa logica perdesse la sua eccezionalità e diventasse una dinamica coerente l’umanità correrebbe verso la propria autodistruzione, poiché soppresso un Abele, sempre uno nuovo se ne dovrebbe individuare. Ecco perché l’assassinio di Abele può essere tollerato come exemplum ma non può diventare seriale senza essere “crimine contro l’umanità”. In questa espressione, che ben designa ciò che il nazismo ha compiuto, è implicito, se vogliamo, anche il corollario della “negazione di Dio”. Se infatti guardiamo alla prospettiva mitico-religiosa, il primo dei comandamenti suona “non avrai altro Dio all’infuori di me”, mentre nella prospettiva neotestamentaria si aggiunge il precetto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché amare un altro come noi stessi? Da una prospettiva puramente materialistica: perché noi siamo l’altro, costituiamo il corpo multiforme della specie umana, la cui conservazione deve essere il primo obiettivo e imperativo. Pensiamo ad esempio a quanto sia lento e complesso il processo di individuazione di sé nel bambino, e come questi all’inizio non abbia percezione della propria identità ma tenda a confondersi con l’altro da sé e perfino con la materia inanimata, l’acqua, la terra, di cui cerca e gode il contatto. La favola della creazione ci racconta che l’uomo, plasmato da Dio dalla creta, impara a poco a poco a distinguersi dalla materia da cui sorge, a cercare nel proprio e nell’altrui il volto del Creatore e tende a ricongiungersi con quello. Ma se la rileggiamo in chiave materialistica e antropocentrica, l’uomo, ‘prodotto’ della specie impara a riconoscersi come appartenente a quella specie e non altra, ad attuarne gli imperativi di sopravvivenza nella piena consapevolezza della propria contingenza e dell’inevitabile disgregarsi e tornare a confluire nella materia. Ma poiché nei viventi con la pulsione di vita coesiste anche una ‘fisiologica’ pulsione di morte, la tendenza all’autodistruzione va costantemente tenuta sotto controllo pena la Vernichtung “annientamento” della specie che in termini mitico-religiosi sarebbe dunque negazione di Dio. Si chiude così il cerchio della condanna nei confronti di una ‘mitologia’ come il nazismo nella misura in cui paradigmaticamente si eleva a motore di un processo che perfezionisticamente perseguito conduce alla distruzione dell’uomo.

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