IL TEATRO PATOLOGICO
Sofocle racconta la storia di un insolito personaggio della tragedia greca. Malgrado, non vi siano spargimenti di sangue, c’è un dramma in atto. Quello di un uomo solo, reietto dai compagni di battaglia, che lo hanno abbandonano a causa della sua infermità. Filottete è affetto da una piaga inguaribile causata dal morso di un serpente. L’arciere vive l’umiliazione di sentirsi inabile, un peso. I suoi lamenti e il fetore del sangue infetto, turbano l’umore dei guerrieri e disturbano i sacrifici in onore degli dèi. Per questo viene abbandonato sull’isola disabitata di Lemno, dove vive per nove anni totalmente solo, in una sofferenza che lascia senza parole. Odisseo è l’artefice di questa crudele decisione, lo condanna a vivere la malattia senza la compassione e le cure necessarie. La sua decisione antepone l’ interesse comune e la ragion di Stato ai problemi personali. Filottete è un uomo finito, la sua disperazione solleva la questione della solitudine senza rimedio del malato. Eppure la storia presenta un finale a sorpresa. Una profezia scompagina tutto. L’oracolo annuncia che la vittoria su Troia si avrà solo con Filottete e il suo arco infallibile. La brutalità della guerra e la sovranità della violenza si muovono sui passi di Ulisse e Neottolemo che, tornano a riprenderlo; hanno il compito di riportarlo sul campo di battaglia a Troia, con le buone o con le cattive.
Un esempio in chiave moderna, del rovesciamento del destino dei malati psichici è il Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi. Un ex calciatore, attore, regista e fondatore di un movimento teatrale sorto negli anni 80. La sua vita cambia dopo la dolorosa esperienza del ricovero in manicomio a Milano. L’incontro con Franco Basaglia, l’uomo che ha sovvertito il destino dei malati mentali in Italia, cambierà anche la sua esistenza.
Secondo la sua intuizione, il Teatro è il luogo dove i malati possono fare riabilitazione attraverso la drammatizzazione del loro mondo interiore: un contenitore di emozioni graffiate da stati discordanti, psicosi, ossessioni, nevrosi etc. Vedere in scena questo caos psichico aiuta a conoscere e gestire le sofferenze causate dalla malattia. Come può il motto “io sono un po’ matto” sovvertire le sorti di questi pazienti? Gli attori scoprono la loro patologia, la vedono in scena, la sentono parlare, urlare. Da quest’esperienza imparano che è possibile risalire i gironi infernali della sofferenza uno dopo l’altro. Conoscendo la patologia e imparando a gestire le emozioni, mettono a nudo il difficile rapporto con gli psicofarmaci, le strutture sanitarie, le difficoltà motorie, in una mescolanza di solitudine ed emarginazione. L’attore raggiunge la consapevolezza che tutta la persona non può essere considerata malattia mentale. Questa infatti, è solo un innesto in lui, pertanto, non si può pensare alla persona come mera patologia. Il soggetto impara a vivere e/o convivere con questo innesto patologico riuscendo a germogliare nel suo potenziale specifico. La storia è pieni di questi esempi illustri, Vincent Van Gogh, Alda Merini. La debolezza del malato muove “la forza dei “sani” per sostenerlo, in questo modo si va costruendo una collettività eterogenea nella quale tutti possono esprimersi. Secondo l’insegnamento di Sofocle, scopriamo che la guerra della civilizzazione non si vince senza di loro. Diceva Filottete, nell’atto di lasciare l’isola della sua disabilità per tornare a combattere: vi saluto dalla cima di una speranza che credevo irraggiungibile.
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