“Il sol dell’avvenire”. Appunti sul recente film di Nanni Moretti
Giovanni Moretti, padre di Michele Apicella, è ‘invecchiato’, come ha scritto qualcuno, uno spettatore che per averlo notato deve essere invecchiato anche lui, ma se così fosse, guardando il suo recente film Il sol dell’avvenire diremmo che è invecchiato bene.
Agli esordi, e per qualche anno, si è confrontato prima con i miti della sua gioventù e perciò di una certa gioventù: la politica, la dialettica considerata panacea di parecchi mali, la causa/effetto perfetta (dopo i quarant’anni di solito si scopre che due più due non fa sempre quattro e sono dolori), la fedeltà alle proprie scelte anche private; tutto questo fra altri giovani che non è che ne sapessero più di lui tanto che a quaranta suonati disse che lui aveva detto cose giuste ed era uno splendido, per l’appunto, quarantenne, per rimarcare un percorso, comunque, di tutto rispetto (Ecce bombo era già candidato a Cannes nel 1978). Da allora sembra passato un minuto ma non è così e Moretti ce lo racconta nella parata finale di volti nel suo film, quelli del suo cinema in primis, poi anche quelli con cui ha condiviso pezzi di vita. Non c’è che da ringraziarlo per questa riga tirata sotto un conto di altri trent’anni (dopo Aprile, del1993) nei quali più di qualche politico e molte sigle partitiche hanno preso il volo, e durante i quali la sinistra continua a pagare alcuni dei tradimenti che il PCI perpetrò, dopo la Seconda Guerra Mondiale, proprio nei confronti dei propri iscritti che avrebbero voluto sin da subito un po’ più di coerenza da parte dell’establishment politico/partitico senza ottenerla (quello in questione nel film fu la mancata presa di posizione del PCI nei confronti dell’URSS che nel 1956 invase l’Ungheria per sedarne, con le armi, l’istanza democratica). I più schietti, come il presidente di sezione PCI Ennio, interpretato da Silvio Orlando, protagonista del ‘film nel film’ girato dal regista Giovanni Moretti, avrebbero voluto lavare la vergogna per quella fine indegna degli ideali con una corda al collo ma il regista li grazia (grazia i suoi personaggi ma non è detto che storicamente sia andata così per tutti quelli che ci avevano creduto); perché, il regista, è diventato anche lui più generoso e perciò, come ha scritto quello spettatore ingrato, sarebbe ‘invecchiato’. Ma va bene se ‘invecchiato’ vuol dire qualcuno che ne ha viste per settant’anni di vita, ha imparato appunto che i conti non tornano quasi mai; che a fare gli egotici ci si rimette anche se è tremendamente umano. Tanto da risultare simpatico ritrovare il Moretti che impone rituali apotropaici alla famiglia intera fatti di serate davanti la tv con un ‘vecchio’ film e del gelato, raggomitolati in una ‘vecchia’ coperta all’uncinetto. Nel cast anche Margherita Buy, Barbora Bobulova, Blu Yoshimi e molti altri…
Da ‘vecchio’ regista, appartenente a quelle provvide generazioni nate nella seconda metà del ‘900, conosce i concetti di etica ed estetica, scusate se è poco, e messo davanti ad una scena di violenza disumana da un giovane regista (scene che ormai beviamo come aranciata tutti i momenti della giornata tra serie e film) e dubitando della bontà della scelta, chiama a consiglio l’archistar Renzo Piano, l’intellettuale e matematica Chiara Valerio, Corrado Augias, ma se non bastasse chiamerebbe anche il regista Martin Scorsese (ricordate gli immensi Mean Streets e Taxi driver a proposito dei costi della violenza?) e anche il trapassato Krzysztof Kieślowski per un suo corto illuminante sull’omicidio, (regista che è stato colonna portante per i cinefili fine anni ’80, imprescindibile…). Bello scoprire che fra i sogni nel cassetto del regista sia rimasto un film sul racconto di J. Cheever, Il nuotatore, personaggio che fu di Burt Lancaster (in Un uomo a nudo – 1968), ricchi di suggestioni film e racconto, davvero fuori dall’ordinario….
Moretti ripropone in questa carrellata sugli anni duemila, raccontata anche alla luce di quel tradimento del 1956 “com’era, come avrebbe potuto essere la sinistra,” attraverso alcuni suoi stimabili tormentoni: dopo i rituali familiari, la voglia di comunicare attraverso le canzoni (il canzoniere si è arricchito di belle voci femminili fra cui quella di Noemi, Sono solo parole, e l’immortale Aretha Franklin di Think, ma quante magnifiche musiche ci ha ricordato in questi anni?) e di ballare con gli altri per sentirsi assieme (accade anche in Tre piani, dal bel libro di Nevo). Tornano le idiosincrasie oltre che per la messa in scena d’una violenza troppo facile e sanguinosa, anche per il sesso esplicito senza più nessuna eccitazione (la scena che mise insieme qualche anno fa Antonello Grimaldi nel suo Caos calmo fra Moretti e Isabella Ferrari aveva almeno il pregio di essere esplicita e carnale con immediatezza); e poi le antipatie per certe calzature e per la mancanza di stile e per certe facilonerie. Interpretando un regista attento alla messinscena dei suoi film fino al più piccolo particolare, desideroso, infine, di fare bene avendo un budget decente che, a quanto pare, nell’odierno cinema sempre più in crisi, può essere garantito solo dagli orientali e da Netflix ma a patto, almeno per le piattaforme, di rispettare le regole ferree dell’intrattenimento che poco hanno a che vedere col cinema d’autore. Qui l’appunto sulla crisi del cinema diviene responsabilità sulle spalle di chi produce, inverandosi nei volti di collaboratori, soprattutto giovani, che vorrebbero fare dei mestieri del set la loro professione a volte senza riuscirci. Moretti in una recente intervista ha raccontato che avrebbe voluto girare un intero film ambientato negli anni ’50 e che poi l’iniziale progetto ha avuto questo sviluppo anche in accordo con le co-sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella; così, il continuo irrompere di tecnologie moderne sul set diviene gag ma anche, forse, denuncia della povertà quasi comica di sceneggiature ormai intrise di laptop, telefonini, computer e device capaci di depotenziare la vera suspense: un tizio che entra in una cantina buia, come quello che s’arrovella sul male del mondo, cinematograficamente sono meno credibili con un apparecchio multifunzione in tasca o in mano.
Non è possibile circoscrivere l’azione o la trama de Il sol dell’avvenire, perché questa presenta sfaccettature e progressioni più vicine alla vita vissuta, al diario. Ne ricorderemo con piacere la passeggiata notturna sul monopattino elettrico invece che in Vespa perché quello è uno fra i tanti segnali che il nostro non è poi così ‘invecchiato’. Gli piace ancora volare sulle ali della vita, conversare, con quel tanto di indefinito e possibile che questo porta con sé nell’esistenza e nell’arte, poiché vivere e creare è anche darsi delle possibilità. Solo l’incalzare di più film nella testa del regista, la creatività, infatti, rinnoverà la speranza, affinché tutto non precipiti nel gorgo del pessimismo ‘della ragione’. Il riappropriarsi, al netto delle finzioni o delle cronache, di ciò che per se stessi è vero, tenendo accanto le proprie passioni, le persone più care, come fanno uomini e donne del proprio tempo. (E il monologo “Io non parlo di cose che non conosco” riecheggia nel ‘non detto’ del film: non più preoccupazione d’un giovane regista ma certezza, sulla quale sorridere, d’un notevole cineasta). (Serena Grizi)
Nell’immagine: Nanni Moretti/Giovanni e Mathieu Amalric/Pierre (Immagine Fandango/Sacher film)
Vero. Ora bisognerebbe fare un elenco di persone (giornalisti o artisti) non posseduti da un pensiero.
Quando una persona è posseduta da un pensiero, lo trova in ogni cosa.