Il sogno di Cosimino
Salì sul treno alla stazione del paese, naturalmente senza fare il biglietto. Ormai Cosimino non aveva più cognizione di che cosa erano i soldi, che si dovesse pagare per viaggiare, per mangiare, per prendere ciò che serviva nei negozi. Era entrato in quella magnifica dimensione universale nella quale si ha la certezza che tutto sia di tutti. Si stravaccò nel primo sedile che trovò libero e subito si addormentò. Quando, dopo Napoli, il controllore gli chiese il biglietto, lui lo guardò stralunato, tra veglia e sonno, e non rispose nemmeno una parola. E quello a insistere che altrimenti l’avrebbe multato, l’avrebbe consegnato ai carabinieri alla stazione di Roma, e lui a guardarlo come si guarda uno spettacolo di cui però non si capisce la trama.
Fu così svelto nello scendere a Termini che il controllore non fece in tempo a bloccarlo. Subito si perse tra la folla. Ed ecco finalmente il Colosseo, ecco finalmente libero di poter giragli attorno, contare i buchi, memorizzare le pietre, cercare di stabilire quante pecore avrebbe potuto contenere. Di tutti i cinque anni delle elementari a lui era rimasta soltanto quella parola e quell’immagine: Colosseo. Aveva messo da parte per anni, nel salvadanaio, i soldini che gli davano per la merenda e anche le mance che qualche volta gli davano per l’aiuto che dava per portare la legna dentro casa di Concetta o di Carolina, ma poi aveva capito che era tempo e denaro sprecati: il Colosseo si poteva conquistare con il desiderio, sognandolo, e nel sogno appropriarsene. E così aveva fatto, ma per anni senza prenderne possesso. Adesso invece le cose erano cambiate: quell’immenso stazzo, quella bislacca costruzione realizzata certamente da un pazzo e destinata alla sua persona, era lì davanti, e lui ne poteva disporre a suo piacimento. Ci fosse pioggia o vento, sole o grandine, Cosimino, in canottiera e con una verga sull’omero, dalla quale pendeva una busta di plastica con cartacce e indumenti presi nei cassonetti vicino all’entrata della metropolitana, girava come girano le ronde e apostrofava, nel suo dialetto, i turisti che a vedersi quel selvaggio davanti (la barba gli era cresciuta incolta ed era anche popolata di qualche insetto) avevano il timore di essere stati catapultati in qualche landa deserta. I turisti non rispondevano alle sue parole e lui continuava a ripetere che quella casamatta troppo grande per una sola persona era comunque sua, comprata anni addietro per mezzo di un sogno che si era ripetuto nella sua testa ogni notte, fino a che non aveva deciso di dire basta e di prendersi il bene. Qualche volta i vigili urbani lo portavano via per un controllo (che tipo di controllo non si è mai saputo) e qualche volta la Caritas lo ospitava, se la temperatura scendeva verso lo zero, ma Cosimino non sentiva freddo né caldo da quando possedeva il Colosseo. Un giornalista gli chiese (non aveva niente altro da fare che intervistare i derelitti) se era vero che lui aveva acquistato il Colosseo, e Cosimino gli rise in faccia, una risata che ancora echeggia tra le antiche mura. La lite ci fu con i centurioni o come diavolo bisogna chiamare quella gentaccia vestita da guerrieri. Erano sei o sette e si mettevano in posa per farsi fotografare con quelli che passavano e guardavano stupefatti la sua proprietà. Gli si scagliò contro, specificò che dovevano chiedere il permesso a lui se volevano continuare a fare quel mestiere di venduti e di falsari. Una notte sognò che il Colosseo era crollato. Lui lo vide abbattersi sopra di sé, frantumarsi. Certo che cercò di fermare il crollo con le mani, ma non si rese conto che aprendole il sogno fuggì via. La corsa dell’ambulanza al Fatebenefratelli fu inutile. Cosimino era spirato sui cartoni. Aveva un’espressione incredula negli occhi, la notò il passante che si accorse della sua morte.
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