Il silenzio e l’oro
Di una umanità dolente, ma fortunatamente ancora viva, che calca da milioni di anni le stesse scene e le assi ormai consumate di quel teatrino dell’assurdo che chiamiamo ‘Terra’. Vengono in mente, sovrapponendosi in uno strano gioco, l’Ungaretti di ‘Soldati’, il Leopardi de ‘L’Infinito’ o ancora, il Penna di ‘La tenerezza’, perché solo la poesia più pura e di certi discreti momenti si può incautamente accostare alla poesia delle immagini, di certe immagini che non hanno bisogno di ulteriori parole. Si devono osservare attentamente le pennellate ed il colpo vibrato con precisione, bisogna entrare in quei dipinti e in quei pertugi, ché solo allora potremo dirci più o meno soddisfatti e trovarci così ad oltrepassare magicamente l’orizzonte degli eventi. Dobbiamo diventare, ancora una volta, come se non lo fossimo già stati, utenti passivi di quelle stazioni e di quei mastodontici aeroporti-outlet, di quelle scale mobili imbiancate e abbacinate, di quelle Gotham-City liquide e perennemente bagnate come la Los-Angeles di ‘Blade Runner’. Ma il giallo imperterrito e insistito di Del Vescovo, le grigie arcate dei ponti e le luminarie è inutile andarle a cercare nei dintorni dell’Impressionismo; pare non abbiano nulla a che vedere con ‘La stazione Saint-Lazare‘ o ‘Le Pont de l’Europe‘ di Monet e Caillebotte, se non di sfuggita, e neanche a ben vedere con la solitudine e i silenzi al neon di ‘NightHawks’ o ‘Automat’ dell’America di Edward Hopper. Tutta un’altra storia. È vero, nelle sue immagini c’è una solitudine piena ed un così fragoroso silenzio che sembra di assistere al finale de ‘La notte‘ (“Di chi è questa lettera?”-“È tua”). E come il ronzio petulante e monocorde del ventilatore dell’ ‘Eclisse‘ sottolinea l’abbandono, l’indifferenza, così le vedute lontane, dal basso o dall’alto fanno risaltare ancor di più la distanza, il distacco temperato di nostalgia. Un’AlexanderPlatz da borghesi e soldati. Una fiera di Siviglia tre mesi prima della guerra civile. Ma il bagliore accecante, come in ‘Belèm‘ e in altri quadri, questo giallo fantasmatico, da dove proviene? Più che alla pazzia o all’allarme, oseremo allora accostarlo a quell’alone di oro fuso del quale scriveva Huysmans a proposito della ‘Resurrezione‘ di Mathis Grunewald, il Grande. Una visione di luce ultraterrena, trascendentale, a evidenziare la spiritualità e la propensione alla bellezza ‘che è in ognuno di noi‘. Il Cristo che torna Uomo. Lì, la Germania della Riforma. Qui, oggi, un mondo in apparenza non più ri-formabile, se non attraverso la Cultura, lo studio, l’Arte. La manualità. E anche Di Gennaro, anche lui con la sapienza nelle mani e con maniere e simboli diversi, sembra voler affrontare lo stesso discorso. I suoi ‘gioielli’, non si riesce a definirli che così, provengono dalla notte dei tempi e per questo immortali. Segni, grafemi, impronte fuoriuscite dalla caverna, da quella di Lescaux, dalle ambe etiopi e dall’altopiano eritreo, dalla mitologia aborigena dell’alcheringa, immagini e manufatti provenienti dall’Universo e inglobati nella Sfera, forma chiusa, ma qui anche aperta e perfetta, posta come centro e origine di tutto. Travisata per un momento per l’architettura illuminista di Boullée e Ledoux (ricordavo il progetto per il cenotafio di Newton), la Sfera appare poi per quello che effettivamente è: l’origine del mondo, strizzando l’occhio a Courbet. Questa mostra, organizzata dall’assessorato alla Cultura e con il contributo di Deutsche Bank, evidenzia ancora una volta che il patrimonio italiano di conoscenze e di espressioni artistiche è incommensurabile, ma va incoraggiato e sostenuto, in tutte le sue forme e con ogni mezzo. La scelta, per un paese come il nostro, dell’annaspare giorno per giorno, in una logica asfittica da piccolo cabotaggio, non porta a niente. E lo stiamo vedendo. Giorno dopo giorno.
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