“Il signore delle formiche”, doloroso risveglio (in un paese ancora omofobo?)
(Serena Grizi) Il signore delle formiche di Gianni Amelio è un film doloroso che forse difficilmente sarà gradito nell’orizzonte di una comunità che desidera raccogliere altro che consensi, con le sue buone ragioni, ed ha necessità di vedersi rappresentata quale vincente, anche attraverso artisti che in questi anni hanno trovato una platea per la quale esprimere il loro sentire considerato ‘diverso’ dai più, in una società che per alcuni versi non è cambiata molto negli ultimi cinquant’anni. Lontano dall’estate lenta e vacanziera del giovane Chalamet nel film Chiamami col tuo nome, di Guadagnino, quindi dai padri comprensivi e dagli spazi naturali che accolgono naturalmente passioni, se pur passeggere per qualcuno; lontano dall’artista restato per sempre giovane, il Freddy Mercury/Malek potente e brillante del film Bohemian Rhapsody di Singer, con la vicenda di Braibanti si torna alle miserie d’un quotidiano che per molti non è ancora finito seppure la storia si svolge tra il finire degli anni ’50 e gli anni ’60 del ‘900. Il signore delle formiche, il titolo, appare un po’ come quegli appellativi dati dai ragazzini quando non distinguono bene ruoli e persone, ‘è passato il signore del gas’ ed è un po’ così che inizia la vicenda: identificando Braibanti come ‘quel signore’ a cui interessano le formiche: per alcuni più facile ricordare che fu mirmecologo, studioso delle formiche (o più corretto sarebbe scrivere mirmecofilo, ‘appassionato di’) che non dire che quell’ometto magro e capelluto, così simile nei colori a Pasolini, era filosofo, sceneggiatore, educatore, intellettuale fine, già partigiano, dirigente del PCI. La frequentazione di ragazzi e la passione per le formiche, più di altro, sembrano individuarlo chiaramente fra molti e precisamente agli sguardi cui appaiono alieni sia l’interesse per la parola, rabbiosa e tagliente a tratti, per la razionalità al parossismo, sia per i giovani intelligenti.
Colui a cui s’interessa Braibanti, per le cronache, è Giovanni Sanfratello, nel film ribattezzato Ettore Tagliaferri (un mirabilmente mite e lucido Leonardo Maltese): un ragazzo conquistato dalla cultura professorale, dall’eleganza naturale dell’uomo smilzo che gli si pone davanti, un Braibanti/Luigi Lo Cascio, attore che sa portare sulle spalle un personaggio, anche lui mite ma indomito, che dimostra col porsi del corpo distanze gelide o vicinanze fisiche gradite (il corpo si muove come limite invalicabile, dell’intangibilità della persona, dell’intimità (intima), dell’integrità del pensiero, per chiunque). La fotografia di Luan Amelio Ujkaj staglia sui panorami emiliano-romagnoli l’esatta grammatura di stoffe, la consistenza di pareti, ma anche la grana dei volti e la bellezza dei profili, il calore delle case non ricche ma mai toccate dalla miseria perché abitate dai libri; delle pareti senza un colore esatto eppure scaldate dai quadri. Amelio nella sceneggiatura cambia alcune coordinate: qui è una madre-aquila e non un padre, potente e ricco, a denunciare ‘l’insana’ relazione, con conseguente rapimento del Tagliaferri che era dovuto ‘scappare’ a Roma, seppure maggiorenne, per affrancarsi dalla cecità familiare e dai sentimenti, a tratti d’invidia, rilevati nel fratello che cercava di osteggiare l’amicizia tra lui e Braibanti. Il professore verrà presto condotto alla sbarra con l’accusa di plagio (reato abolito nel 1981(!!) per iniziativa del Partito Radicale), perché come dice il cronista Scribani, intenso Elio Germano, attore umano e affilato (altro personaggio mite), Mussolini non fece fare menzione del reato di omosessualità nel Codice Rocco, derubricandone così l’esistenza nella patria della virilità indiscussa. (Qui viene in mente Il bell’Antonio, romanzo di Vitaliano Brancati del 1949 ma ambientato nel 1930, che descriveva la ben difficile vita d’un uomo che non poteva garantire la virilità richiesta dalla imperante cultura fascista).
Il film non finisce col film ma lascia traccia negli occhi, nella mente. L’ingiustizia perpetrata ai danni dei due (manicomio ed elettroshock per Tagliaferri, carcere per Braibanti), porta a cercare notizie delle loro vite reali, scomparsi tutti e due tra il 2014 e il 2018, Braibanti convinto, probabilmente, nel suo proposito di proseguire una vita di studi e ricerche seppure nell’ombra, Sanfratello/Tagliaferri sparito nel nulla, senza più nessun cenno su una sua (forse possibile?) carriera di artista o altro… Così, anche se il processo resuscita quell’altro celebrato a fine ottocento contro lo scrittore irlandese Oscar Wilde, qui non c’è né l’eccentricità del dandy di successo né la bellezza a tratti malvagia e ammaliante di Bosie e i due galleggiano nel ricordo come coloro che la società ha ‘eletto a scandalo’ senza consentirgli di vivere quella loro esatta storia ed in tempi drammaticamente più recenti rispetto al processo a Wilde. Il film prende i suoi tempi nel raccontare le vicende, ma senza cali di tensione, colorando la scena con diversi cambi temporali e di fondale e la sua cifra sembra trovarsi, oltre che nel racconto di una vicenda seppellita nella memoria collettiva, nell’interrogativo profondo che pone: i traguardi raggiunti dalla comunità LGBT+ sono consolidati una volta per tutte o quel mondo nel mondo dovrà scendere fra non molto tempo a difendersi di nuovo? Il cielo plumbeo che aleggiava sugli anni precedenti il ’68, ha avuto, ha, la costanza di tornare e dove è possibile e giusto festeggiare i traguardi, occorrono anche amare riflessioni sulle libertà personali, comprese le più intime, messe sul banco degli imputati da una mal interpretata morale comune, perfino in seno a gruppi politici ritenuti progressisti.
L’articolo appare sul blog Variazioni con alcune varianti
“Il signore delle formiche” di Amelio, un doloroso richiamo dal sogno…
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grazie Serena, una guida eccellente per opere scelte