Il senso delle Madri
“Misera, dunque sei fatta di pietra, sei Fatta di ferro, tu Se al seme dei figli la mano tua ora la morte dà. Che può accadere ormai di più terribile?” (Euripide)
In origine le madri rappresentano il senso della terra. Quel loro potere occulto di consegnare alla vita esseri dotati di movimento lega la loro essenza alle profondità della terra. Alle sue caverne, alle sue voragini, aperte verso il cielo così come l’utero si apre verso l’Amore. Attraverso la terra le madri sono legate alla norma, alla legge. Il loro essere canali di emissione di vita, di nutrizione di spiriti e corpi, di fioritura di guerre e rinascite le affianca in un modo sotterraneo e intuitivo alla statuizione del diritto, alla creazione e alla difesa di un confine umano e quindi politico nel suo significato più alto. Carl Schimtt apre il suo Il Nomos della Terra con un riferimento concreto e simbolico a questo legame sottile: “La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto, […] la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé quale contrassegno pubblico dell’ordinamento”. La Terra è madre, di uomini e di stati; madre di confini umani e sovra umani. Per questo, l’essere ‘donatrice’ della madre rende aberrante i continui omicidi di figli. Una follia che dilaga ed è lontana dalla ferocia dionisiaca delle madri greche. Medea, nella sua vendetta selvaggia, manifesta una passione, un amore dilaniante e profondo, anche se infero e deviato, poiché l’amore non può essere se non amore del Tutto e di ogni cosa. Medea rappresenta un essere, o, meglio, una voragine dell’essere, che pure può riempire di sé il cosmo. Oggi le donne, degradate e psichicamente spezzate, uccidono per il supremo nulla. Sono vittime del crollo collettivo della psiche e manifestano la rottura e la disintegrazione del filo che unisce l’uomo alla sua terra. Ogni confine è vinto, ogni cosa ha perso la sua definizione, si perde nell’infinita e indefinita analisi. La vittoria moderna sul concetto stesso di ‘confine’, che si fonda su una deviata volontà di potenza, instilla nella psiche collettiva e individuale il rifiuto rabbioso di legami, limitazioni esistenziali, impegni. Perfezione è, oggi, vivere nel limbo di un’esistenza priva di contorni delimitati, sospesa nelle non-scelte, nelle non-decisioni, nelle non-responsabilità. In questa nuova costruzione onirica della perfezione esistenziale, un figlio non può che essere fonte di depressione e stanchezza. Quello che ieri era una ricchezza da ricercare, oggi è un oggetto invadente da sopprimere il prima possibile. Oggi una madre strangola il figliolo di quattro anni con il cavo del caricabatteria di un telefonino. Nel suo essere drammatico, questo gesto ha perso la tragicità solenne che pure meriterebbe: è un gesto da compiere nel quotidiano, con un oggetto consueto. La famiglia, antico deposito di diritto delle Gens, originaria cellula deputata alla definizione e alla difesa del sacro Limen, è diventata ormai teatro di una strisciante guerra civile, sulla quale insiste il silenzio colpevole dello stato – becero ‘stato di polizia’ senza potere – della Chiesa – colpevole e ipocrita custode del nulla – della politica, dei giornali. Dilaga la guerra di un popolo che ha perso il proprio volto e che, paradossalmente, trova nei clan degli immigrati, clandestini e non, il ricordo rinnovato del senso di unità familiare, di comunità, di stato. Se è vero che la giustizia è una dea da onorare, anche questa madre, come le altre, pagherà il suo crimine. Ma a cosa servono le nostre guardie, i nostri tribunali, le nostre prigioni, in un mondo dove le madri, trasformate in demoni oscuri, convertono il potere che è loro proprio, sulla vita e della vita, in potere di morte? Dove cercheremo il confine sul quale batterci, se il fronte amico/nemico è nel nostro sangue?
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