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Il sacrificio

Maggio 16
00:00 2007

Prima comparvero i saltimbanchi, nel fragore di trombe e grancasse. Correvano sui trampoli a lunghi passi legnosi come insetti dal volto umano. Gridavano parole smozzicate, agitavano le braccia, recitavano eccessivi e innaturali per divertire o forse spaventare.

Mimavano il nulla illudendo che fosse il tutto.

Scomparvero così come erano apparsi, veloci e vorticosi, goffi e variopinti nelle vesti troppo larghe, interpreti sbracati di una commedia pagana.

I ragazzini li inseguivano lanciando sassi.

I carri allegorici sfilavano in una pioggia di coriandoli.

Su ogni carro automi ingenui e ostinati alzavano e abbassavano le gambe, si toglievano e rimettevano il cappello, tiravano fuori e dentro la lingua di cartone.

Solo sul carro mitologico non c’erano pupazzi ma satiri riccioluti con il torso nudo spruzzato di polvere d’oro e ninfe dalle coscie perfette e lucenti fra veli mossi dal vento, membra di maschi e femmine in abbracci di finta cartapesta, assurda illusione rovesciata di corpi vivi che si fingono statue fra statue che si fingono vive.

Ma il carro, altrimenti ridicolo, prendeva dignità da un pennone che lo sovrastava, altissimo, bianco, affusolato, vibrante nel vento.

Lassù, come un angelo incatenato, fluttuava nell’aria una ragazza dai lunghi capelli. Rabbrividiva di paura e di emozione, col petto agitato, forzata ad un’immobilità che sembrava la condanna di quel carro di statue dalle carni dorate.

Come fosse una vergine offerta ad una divinità dell’aria, la folla la guardava con un’emozione antica come la razza umana.

 

“Pare una santa.” disse una donna, parlando a sè stessa. Un’altra donna accanto a lei annuì, ma una terza le guardò di traverso, sprezzante. Non disse nulla, ma pensava alle corde sottili che la tenevano al pennone e immaginò che fossero strette fino a ferirle la carne e provò un piacere indecente, pensando ad un’altra ragazza che sapeva lei, che le sarebbe piaciuto fosse là in bilico esposta agli occhi di tutti. E immaginò fiamme altissime che si arrampicavano sul pennone e bruciavano la strega.

Un uomo catturò il suo sguardo e intuì il suo pensiero.

Lo colse al volo e lo trasformò per sè.

Dovette mordersi il labbro per trattenere l’eccitazione e la punta bianca di un dente sbucò dalla sua bocca e ne straziò un angolo. Allungò lo sguardo fra i veli che fluttuavano attorno al suo corpo, cercò di insinuarsi per scoprire splendori intimi e nascosti, in un’inutile speranza. Respirò forte, fiutò l’aria cercando l’odore di quella carne giovane offerta sulla punta del pennone come un boccone prelibato.

Deglutì un eccesso di saliva e come turbato da un rimorso abbassò lo sguardo e incrociò quello di una ragazza che, severa, lo evitò e distolse gli occhi per guardare, sullo sfondo di un raggio di sole, quell’esile corpo dopotutto non migliore del suo, offerto agli sguardi come un’opera d’arte ma scosso da brividi e singhiozzi indecorosi.

Non era adatta alla parte, quella ragazza.

Come poteva impersonare il simbolo di una qualsiasi cosa?

Altre ragazze avrebbero potuto farlo meglio ed in particolare ne conosceva una che incontrava ogni mattina allo specchio. Per cui, ora, era giusto che quella là rabbrividisse nel freddo e tremasse di paura. Un sorriso di compiaciuto dispetto le arricciò le labbra e lasciò scivolar giù lo sguardo, lungo il palo affusolato, fino a sfiorare i capelli bianchi e troppo lunghi di un austero signore vestito di nero che, dietro la schiena, batteva il dorso di una mano contro il palmo dell’altra e dondolava lentamente sulla punta dei piedi.

Immaginava una bacchetta nelle proprie mani, nascosta dietro la schiena per incutere maggior timore e rispetto. Immaginava di punire rosee, delicate carni arrossate in striscie dolcemente in rilievo, inturgidite dal sangue incapace di sgorgare dalle ferite accennate ma non aperte dalla veloce, decisa bacchetta vibrante fra le sue dita.

Sospirò inebriato, rapito al pensiero di lacrime su un giovane viso e di una voce tremula implorante e accentuò il dondolio dei suoi piedi impazienti, ma dovette fermarsi quando sentì che qualcuno lo guardava.

Una bimba colse il suo sguardo di vecchio cattivo, ma era troppo piccola per averne paura. Fu solo stupita.

Leccando il gelato alzò lo sguardo.

Quando sarebbe venuto il drago?

Il principe sarebbe arrivato in tempo per salvarla?

Forse no e allora il drago l’avrebbe mangiata, cominciando dalla testa. L’aveva visto in un cartone animato, una volta.

“Guarda che disastro!” disse la mamma pulendole la bocca sporca di gelato “Quando viene il drago?” chiese la bimba. “Cosa?” disse la mamma e seguendo lo sguardo della piccola vide la ragazza nel vento e….

Pian piano si rilassò. Il cuore non le batteva più tanto forte, la vertigine stava passando.

Chi mai l’aveva convinta a recitare quella parte in cima al palo?

Non sapeva fosse così alto e che ondeggiasse tanto.

Quel maledetto carro traballava come un somaro zoppo.

Faceva anche freddo, c’era vento e il sole non bastava a calmarle i brividi.

Ma ci si abitua a tutto dopo un po’, anche a questo.

La folla era lontana sotto di lei, un formicaio variopinto e rumoroso. Sentiva il suo brusio venire dal basso, non fastidioso come quando ci si è in mezzo. Dopo un poco ne senti il ritmo, sembra un respiro, ti abbandoni come ad un mantra, non ti può far male, è lontano, sotto di te.

Chissà se si erano accorti di lei, là sotto.

Forse credevano che fosse una statua, da quella distanza. Chi poteva pensare che una ragazza fosse tanto sciocca da lasciarsi convincere a stare su un pennone e fingere di essere una statua?

Stava lassù come il simbolo di.. di cosa?.. gliel’avevano detto ma non lo ricordava, doveva essere poco importante

Smise di guardare la folla e sollevò lo sguardo.

Mai guardare in basso, il segreto era quello. Glielo avevano detto ma non era riuscita a crederlo. Non vedeva più le formiche colorate, ora, ma l’orizzonte, le montagne in lontananza e i paesi vicini di cui riconosceva i campanili. Qualche palloncino fuggito dalle mani dei bambini le passava accanto, diretto ad una sua meta ancor più in alto di lei.

L’aria le sembrava più pura, ora. Non sentiva più freddo, era calma, tranquilla, il respiro era leggero, breve, quasi inesistente.

Chiuse gli occhi, assaporando il vento, le membra rilassate e immobili. Non volle più pensare a nulla, non ne aveva bisogno, sapeva che l’orizzonte era davanti a lei e che i palloncini sfilavano lentamente, docili ai capricci del destino.

I veli che la fasciavano sembrarono farsi più pesanti e torcersi più lenti nel vento.

 

I saltimbanchi tornano, agitati e osceni, sulle lunghe gambe da insetti, vorticando in un fragore di trombe sgraziate e di grancasse.

Catturano le emozioni della folla che, ormai sazia, abbandona la fanciulla inchiodata al cielo per seguire le loro provocazioni.

Il carro prosegue nel suo cammino.

 

La sfilata è finita, il carro è fermo, i figuranti sono scesi.

Sprecano tempo attorno al carro, esibendo per scherzo le parti nude e dorate del corpo.

Ma lei non accenna a scendere.

Resta lassù, senza guardare i compagni in basso.

Scende la sera, il cielo azzurro si fa blu e i figuranti cominciano a rabbrividire. Qualcuno accenna ad un saluto, poi tutti si allontanano lasciando il carro nell’ombra crescente.

Nessuno pensa a lei.

 

Gatti curiosi giocano fra le cartacce nel buio che riempie la piazza. La luna spunta da dietro il campanile e fa impallidire il buio.

La ragazza si scuote, rabbrividisce, si slega e scende pian piano.

Accarezza il carro e si allontana verso casa e la televisione.

Domattina, al negozio di parrucchiera, laverà i capelli di signore che fingeranno di non riconoscerla.

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