Il ritorno della Messa in latino
Il recentissimo “motu proprio” Summorum Pontificum emesso da papa Benedetto XVI ha messo fine a tutta una serie di illazioni che da tempo circolavano circa il “ripristino” della Messa in latino. Una vicenda squisitamente liturgica tutta interna alla Chiesa ma che, come spesso succede, ha scaldato gli animi più a coloro che mangerebbero preti a colazione e cena piuttosto che ai fedeli cattolici, apostolici e romani. Difatti, mentre questi hanno ormai da tempo metabolizzato il Concilio Vaticano e vedono il latino solo come la bizzarria di una élite d’intellettuali, quelli – al contrario – pur senza averne né titolo né contezza sono preoccupatissimi per l’involuzione (sic!) della Chiesa Cattolica e chiedono, anzi pretendono, spiegazioni. Pertanto, ad uso sia dei tiepidi che degli intrepidi, ci permettiamo di svolgere qui un breve riassunto di tutta la vicenda. Fino agli anni Settanta circa ha avuto vigore il rituale stabilito alla fine del Concilio di Trento (1563), il che ha fatto connotare quella Messa come “Messa tridentina” o “Rito tridentino”. E’ impossibile qui descrivere in dettaglio, per evidenti motivi di spazio, come si svolgeva quella Messa, ma proviamo a solo a individuare alcune connotazioni fondamentali. La lingua era anzitutto, ovviamente, il latino quale lingua ufficiale della Chiesa universale; la Messa durava molto di più di quella attuale; il sacerdote – solennemente abbigliato – officiava con le spalle al popolo e la gran parte del rituale era recitato da lui stesso, ad alta voce o in segreto. Il popolo seguiva il rito sul messale e poche volte doveva intervenire con preghiere o invocazioni. Grande importanza aveva poi il cerimoniale fatto di inchini, genuflessioni, candele, incenso, ecc. Forse non molti fedeli avevano ben chiaro il significato d’ogni singolo passaggio, ma l’atmosfera era profondamente mistica e la preghiera era devota, a prescindere dalla cognizione delle formule. Il papa del Concilio tridentino, san Pio V, conoscendo – diciamo così – i suoi polli, appose come ultimo suggello al decreto con cui emanava il nuovo Ordo Missae un vero e proprio anatema: nessuno e per nessun motivo si sarebbe mai dovuto azzardare a cambiare una sola parola di quel decreto, pena la dannazione eterna. In altre parole, il decreto diveniva di fatto irrevocabile e nemmeno un futuro pontefice avrebbe potuto più mettervi mano. Questa circostanza creò non poco imbarazzo ai padri conciliari che – a metà degli anni Sessanta – furono chiamati a rendere più agile la S. Messa. Alla fine, come dal cilindro del prestigiatore, uscì la soluzione ottimale: il rito tridentino non sarebbe stato minimamente toccato, semplicemente sarebbe stato messo in soffitta e soppiantato da uno redatto ex novo. In realtà il vecchio rito fu abbondantemente usato come fonte d’ispirazione per il nuovo, il quale venne pure a risultare più corto di almeno la metà del tempo: risparmiando sull’omelia e sui canti, oggi un sacerdote può celebrare un’intera Messa in poco più di mezzora. Omelia e canti: in effetti, la nuova Messa post conciliare – abbandonati i mistici silenzi e le sommesse orazioni – risulta un vociare continuo di sermoni, canti, spiegazioni, invocazioni, ecc. ed è sorprendentemente molto affine alle celebrazioni della Chiesa Protestante. Ciò non è casuale, poiché fu lo stesso Paolo VI a chiedere ai revisori del rito che la nuova Messa assomigliasse il più possibile alle funzioni anglicane, forse perché sperava che una tal mossa contribuisse vieppiù ad avvicinare e magari riunire nuovamente le due Chiese. Inoltre via i ceri, via l’incenso, via gli inchini e le genuflessioni, la Messa ora era veramente quella “assemblea popolare” (ma che qualche mala lingua chiama “condominiale”) da più parti invocata, tanto che il sacerdote – peraltro ormai abbigliato non più con vesti solenni ma con una sorta di camicione stile premaman – ora non “celebrava” più ma “presiedeva” la sacra liturgia. Va pur detto che in molti luoghi vi sono state delle vere e proprie fughe in avanti, sull’onda di un eccessivo e malinteso entusiasmo da rinnovamento postconciliare, tanto da dare adito ad abusi formali d’ogni tipo (Messa-rock, Messa-folk, chitarre elettriche, abiti stravaganti, ecc.). Un momento, ma…… il latino? Già. Il fatto era che la lingua ufficiale della Chiesa era e restava il latino, sicché anche la nuova Messa venne stilata in latino, solo che – colpo di scena dei padri conciliari – di essa veniva “permessa” (ribadiamo “permessa”) anche la versione nelle varie lingue nazionali e/o locali. Del resto non poteva che essere così: per poter “permettere” l’uso degli idiomi nazionali occorreva anzitutto stabilire un testo base, unico vero depositario universale della correttezza liturgica e dottrinale, dal quale poi ricavare le centinaia di versioni mediante una traduzione fedele e approvata dalle superiori autorità. E dovendo usare una lingua franca, un esperanto che comunque non facesse preferenze di nazionalità, essa non poteva che essere il latino, la millenaria lingua dei Padri della Chiesa. Eccoci intanto giunti a chiarire un primo punto fondamentale: il latino non è mai uscito dalla Chiesa ma vi è sempre restato, magari chiuso in uno stanzino come si fa col vecchio zio matto quando arrivano gli ospiti. In realtà, qualunque comunità abbia o abbia avuto finora il desiderio di ascoltare la S. Messa in latino doveva semplicemente far usare dal sacerdote il testo base conciliare. Detto tutto questo, dov’è allora la querelle? In realtà le differenze tra rito tridentino e rito postconciliare (sulle quali non vogliamo annoiarvi) non erano solo formali ma anche sostanziali, quasi al limite del teologico, e furono proprio tali discrepanze a far compiere nel 1988 al famoso vescovo francese Marcel Lefebvre il grande strappo dello scisma, al quale ancor oggi fa riferimento una porzione non trascurabile di fedeli. Poco dopo, con il motu proprio Ecclesia Dei, il papa – pur condannando duramente il vescovo ribelle – fece tuttavia qualche apertura al vecchio rito. In tal modo, la Messa di San Pio V – pur formalmente ancora legittima e valida – fu “permessa” sia pure a determinate condizioni-capestro fatte di rigide autorizzazioni vescovili, di cappelle private, di piccole comunità, ecc. Ma, trascorsi ormai quasi vent’anni da allora, Benedetto XVI, da sempre tutore intrepido della tradizione e dell’ortodossia liturgica, ha emesso un nuovo motu proprio che sancisce quanto in realtà poteva già essere fatto quarant’anni fa e senza clamori: la Messa tridentina non ha bisogno di autorizzazioni perché gode dell’indelebile imprimatur di San Pio V. Può essere detta senza permessi ovunque e in qualunque momento purché nel rispetto di talune elementari prescrizioni: ad esempio, nessuna interferenza con le ordinaria attività di culto delle parrocchie o istituti religiosi, sempre che a chiederla sia un certo numero di fedeli. Ciò proprio in considerazione del fatto che la Messa tridentina deve soddisfare le reali esigenze di tanti – anche se non molti – e comunque non deve diventare il capriccio di una nostalgica élite. In conclusione, e con buona pace di tutti gli accigliati allarmisti, il ritorno della Messa tridentina non può né deve turbare i sonni di nessuno, se non di quei soggetti che mentre il sacerdote officia stanno già col pensiero alla tavola imbandita che li aspetta a casa. Sono gli stessi (forse i soli) che si lamentano dell’oscuro latino ma per i quali – anche se espresso in un chiarissimo italiano – il Vangelo risulta sempre e comunque latore di precetti duri da digerire.
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