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Il ritorno

Luglio 06
23:00 2007

Infilata la chiave nella toppa, mi sembra di sentire qualcuno dentro: le vocette dei bambini dentro, la grande stizzosa e petulante, il piccolo la beffa con una cantilena ritmata. Ma appena entrato mi avvolge il silenzio spesso delle case vuote: nella sua profondità rimbalza forte il tonfo della porta che mi si chiude alle spalle. Come un sigillo. E qualcosa si accende nella mia testa, come un piccolo segnale rosso di pericolo.
I miei figli sono grandi ormai, studiano fuori. Mia moglie non c’è. Non mi aspettava del resto. E comunque non avrebbe per questo cambiato i suoi programmi: di maggio alle cinque va al rosario, poi con le amiche. La casa è fresca, di quella frescura languida che già lascia presagire l’estate. È l’ora della calma sonnolenta prima della sera. Quando tutto quel chiaro sfumerà nell’azzurro si accenderanno i lampioni, la gente scenderà sul lungomare per la passeggiata prima di cena. Scenderò anch’io stasera. La prima sera della vita nuova, la vigilia di un domani senza sveglia, rasatura frettolosa, la cravatta annodata sghemba in ascensore, l’aereo che già rulla o che non parte mai. La sera di nuovo nella mia casa, dopo sei anni lontano.

Apro le imposte nella sala. Entra la luce, il barbaglio del mare e prima il nastro lucente della ferrovia. Due linee quasi parallele. Che corrono verso destra, verso sinistra, verso… altrove. Il mio viaggio invece finisce qui. Con frasi senza voce, banali e lapidarie come questa, la mia coscienza mi apparecchia le verità da tacere. E subito dallo stomaco gorgoglia su il malumore. Forse la disperazione dei vecchi è questo: un vecchio muro scrostato, assenza di domani. Rimpiango la disperazione dei vent’anni, la ferocia di quella crepa che mi si apriva nel cuore all’improvviso e mi proiettava sull’abisso. E rispetto a questo silenzio del cuore, mi sembra dolce ricordare perfino la macchia che ho nascosto con vergogna per tanti anni. La mia disperazione di bambino. Quella che nasce dal tempo. È troppo lungo il tempo dei bambini, conta tutti i secondi per fare un minuto, i minuti che fanno le ore. Perché la vita reclama ogni istante, preme, non vuole essere sprecata. Allora è sempre troppo lungo il dolore di un bambino. È lungo i pomeriggi di primavera davanti alle finestre aperte della camerata, davanti ai muri celestini con lo zoccolo giallo. E, fuori, un altro muro, quello alto di cinta del collegio. Quei pomeriggi affacciati sul niente, sciorinati davanti a me come un lenzuolo bianco: io dentro, la vita fuori. È lungo il dolore di un bambino. Come le vigilie di ogni rientro dopo le vacanze a casa. La notte prima della partenza, con gli occhi sgranati nel buio a ripassare ogni particolare dei giorni trascorsi, per portarli con me interi nel deserto che mi avrebbe inghiottito l’indomani. Finché arrivava il momento. Mio padre mi precedeva a testa bassa per le scale portando la valigia, silenzioso e paziente come un boia. E io lo seguivo senza voltarmi a salutare la mia casa, la donna sulla porta, che era mia madre. Ci sono donne che ti lasciano partire, donne che non ti sentono arrivare.
Senza accorgermene sono rientrato nella stanza, nell’ombra. L’imposta, socchiudendosi, riflette come un guizzo la luce che cerco di richiudere fuori. Ma in quello spiraglio qualcosa si è insinuato ondeggiando. Fatta d’aria, una gonna lunga bianca punteggiata di rose avvolge un passo leggero. È un attimo e l’immagine è così presente da respingermi accucciato sulla mia vecchia poltrona. Oggi come ieri, resto a guardare, e nel sole del pomeriggio, oggi come allora, mi viene incontro lei. La figura bianca ondeggiante, i capelli oltre i fianchi, legati in un nodo lento. E per mano un bambino, piccolo, magro, le occhiaie profonde. Porta i calzoncini corti e scarpette bianche di tela. Perduti, come due uccelli senza nido. Allora una forza potente mi aveva sollevato e spinto verso di loro. Solo da vicino mi erano apparsi i coralli di lei, pesanti ai lobi e sul petto, e il lampo selvatico dello sguardo verde. Antica e imperiosa, dolente e insolente come una madonna zingara. Come tutte le donne che nei secoli hanno preferito i sentieri erti e la solitudine delle altezze. Quelle che nei secoli gli uomini come me hanno chiamato con il nome che allora dentro di me le diedi: strega.
Ci vedemmo ogni giorno di quell’estate rovente, nei pomeriggi assolati, in mezzo ai vigneti e ai rovi carichi di more. Nelle notti di luna tra le montagne nere. Ascoltando il silenzio del lago morto, tra i tonfi sordi dei pesci e il latrato lontano dei cani. E dentro quello sguardo, dentro i suoi capelli mi sono perduto. Mi sono licenziato, ho lasciato la mia casa e i miei figli. Seguendo quel passo danzante ho immaginato per me una nuova vita. Nei piccoli passi del suo bambino, dietro le scarpette ogni giorno più sporche, ho seguito le orme incerte di quell’altro bambino. Lasciato tanti anni prima, soffocato nel silenzio: il bambino che ero stato.
L’ho portata al mio paese umido di pianura, dove le montagne mostrano le cicatrici delle colate di fango che di tempo in tempo ricoprono le nostre case. I miei familiari hanno apparecchiato per noi il letto nuziale, con le lenzuola migliori, come a una nuova sposa. Ma gli animali domestici fiutano il selvatico: ne avevano diffidenza e paura. Solo io non sapevo che agli animali del bosco non si offre una casa. Lei si aggirava inquieta, rimpiangendo un suo altrove. Ma suo figlio cercava la mia mano, mi guardava ogni volta come la prima, da sotto in su. E io lo portavo con me dovunque, sveglio o addormentato, in braccio o a cavalcioni, per non consumare più le sue scarpette grigie. Lo amavo più dei miei figli, più di me stesso.
L’ho seguita nella sua casa. Ma gli animali del bosco dilaniano chi entra nella loro tana. La casa mi rifiutava. Non trovavo spazio per me in nessun angolo di quella casa grande e oscura. Finché mi rimase solo il letto. E lì mi rifugiavo subito rientrando la sera. In quel letto grande e profondo, sempre sgualcito e caldo. Ma presto anche lì cominciai a svegliarmi di soprassalto, sudato. Mi sembrava che qualcosa oltre la porta, in fondo al corridoio, ghignasse nel buio. Forse in quella casa, con lei, abitava il suo vero padrone. E da lui discendeva anche la mia schiavitù. Di giorno in giorno diventavo svogliato nel mio nuovo lavoro, il sonno non mi lasciava mai. Ma la notte, appena cominciavo a gustarne il tepore quieto, venivano le mani imperiose di lei a richiamarmi alla mia servitù. Dai miei lontani ricordi di scuola tornò a galla una storia dell’antichità, quella maga che trasformava gli uomini in bestie. Forse per questo lei non invecchiava mai. Mi accanivo a spiare ogni giorno se comparisse una nuova ruga, un capello bianco; cercavo in lei, senza trovarlo, un segno di umanità. Ma lei mi giurava che no, era solo l’amore a tenermi legato in quel suo letto sempre umido di noi, delle sue parole e lacrime. Ci sono donne che piangono, che dicono di amarti. Ma devi saper leggere la falsità sulle loro labbra. Perché non può essere vero. Perché prima nessuno mai. Allora lei allentava i suoi nodi. All’improvviso sembrava dimenticarsi di me. Per poi catturarmi di nuovo, sempre più stretto. Cominciai a desiderare la mia casa, profumata di detersivo, le lenzuola di bucato e il copriletto stampato a fiori. Mia moglie, con il pigiama di flanella e i riti quotidiani della sua femminilità modesta, la crema economica sul cassettone tra l’unico profumo, i fiori finti e la foto del matrimonio. Rimpiangevo la sua conversazione di monosillabi e luoghi comuni e le sere passate a sognare con i miei vecchi dischi. Ma allora l’altra stringeva il laccio. Mi veniva incontro sorridendo il suo bambino dalle scarpette nere. Del mio amore si nutriva, erano scomparse le viole degli occhi. Ma non cresceva. Le mani paffute, la pelle liscia e rosea di bambino, non un segno della pubertà pure imminente. E io lo prendevo per mano.
Ormai era scesa una nebbia grigia su tutte le cose, il giorno assomigliava alla notte. Il mio unico sentimento era il sonno. Finché lei, con un ultimo strattone, non aveva spezzato la mia corda di vecchia marionetta. Per sparire poi all’improvviso. Nel nulla da cui era venuta.
Mi sono licenziato. Ho raccolto le mie cose e lasciato la città. Ma non cercherò un nuovo lavoro. Con i miei 52 anni sono un vecchio. La vita che da bambino invidiavo agli altri da dietro le sbarre del mio carcere, adesso posso permettermi di respingerla. Perché lei non si concede mai davvero a chi come me non è all’altezza dei propri desideri. Su questa poltrona il mio corpo ancora giovane e vigoroso dovrà rassegnarsi pian piano a seguire la mia vecchia anima. Ingrigirà la carnagione, si asciugherà il fluido che ancora la rende elastica e sensuale. Nel silenzio dei sensi scivolerò a poco a poco nel sonno.
Nel dormiveglia mi sembra che qualcuno sia entrato silenziosamente nella stanza. Ora è seduto accanto a me. Con il saio consunto, i sandali logori dal lungo andare. Lo riconosco. Il Visitatore, il Gran Maestro del Dubbio. Sotto il cappuccio, nelle viole degli occhi incavati mi fissa, lo sguardo lucido di Ragione. E stavolta non ho paura. So cosa fa qui.
Sento lo scatto del cancello che si apre. Mia moglie sta rientrando. Ho ancora una manciata di minuti per chiudermi in silenzio la porta alle spalle, scivolare in garage, prendere la mia auto e rituffarmi tra le montagne nere da cui sono venuto. Forse la troverò invecchiata e il suo ragazzo mi sorriderà sotto la peluria dei primi baffi. È l’ultimo bivio. Forse sono ancora vivo.

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